Un Uomo Solo è un libro triste. Triste come può esserlo un libro che parla di un lutto, di un vivere sempre più stanco e affaticato, di un bagaglio di esperienze di cui si avverte il peso, man mano che ci si accorge della loro vanità. Non si diventa più saggi, ma soltanto più stupidi, svela al suo giovane alunno il vecchio professore, icona di una solitudine che Isherwood decide di raccontare con il bisturi, anzichè con la penna: la incide, la spolpa, la scarnifica, con lo sguardo lucido ed implacabile di chi vuole e sa andare fino in fondo, a tutti i costi.
E così, la solitudine di George va oltre il dato esistenziale della sua vedovanza, per diventare l'espressione di un rifiuto a tutto tondo che è poi il filo rosso che lega la storia e il suo protagonista al suo autore.
Come Isherwood, infatti, George è un omosessuale nell'America dei primi anni '60, emarginato da una società avvelenata dal conformismo, che si schiude cauta alla novità per ritrarsi impaurita di fronte alla diversità. E il vecchio professore non fa eccezione: è il diverso, l'uomo cattivo, quello che spaventa i bambini e che nessuno invita ai barbecue della domenica. Tuttavia, come Isherwood, anche George non si riconosce nei valori e nei parametri dell'ambiente in cui vive e che affronta, ogni giorno, assumendo la maschera del rispettabile professore che tutti si aspettano che sia. Emarginazione ed alienazione diventano quindi i due modi in cui si declina il dramma della solitudine di quest'uomo, sin dalle prime battute del racconto della giornata narrata nel romanzo: la casa in cui vive, isolata dalle altre e separata dalla strada da un ponte, è metafora del suo essere ai margini, mentre il luogo da cui egli osserva la vita del quartiere- la tazza del gabinetto- è la cifra del disprezzo del suo sguardo sul mondo.
E così, le 24 ore del giorno si srotolano in un moto sussultorio, con la solitudine a fare da basso continuo e tutto il resto a far da contrappunto- ora la rabbia, ora il dolore, ora il disincanto, ora gli accenti intimi e struggenti di una malinconia che si incarna nella quotidianità degli oggetti- in una partitura che Isherwood dirige con un distacco sofferto e, a tratti eccessivo. La paura di oltrepassare il limite della narrazione, per farsi travolgere da un vissuto di dolore e rabbia, c'è e si sente e mostra la corda laddove la ragione prevale sul cuore: ma quando invece è quest'ultimo a prendere il sopravvento, in questo magistrale equilibrio fra una materia che palpita ed uno stile che raggela, mantenersi impassibili è davvero difficile. Non foss'altro che per la grande lezione di stile.
A voi
Ale
E così, la solitudine di George va oltre il dato esistenziale della sua vedovanza, per diventare l'espressione di un rifiuto a tutto tondo che è poi il filo rosso che lega la storia e il suo protagonista al suo autore.
Come Isherwood, infatti, George è un omosessuale nell'America dei primi anni '60, emarginato da una società avvelenata dal conformismo, che si schiude cauta alla novità per ritrarsi impaurita di fronte alla diversità. E il vecchio professore non fa eccezione: è il diverso, l'uomo cattivo, quello che spaventa i bambini e che nessuno invita ai barbecue della domenica. Tuttavia, come Isherwood, anche George non si riconosce nei valori e nei parametri dell'ambiente in cui vive e che affronta, ogni giorno, assumendo la maschera del rispettabile professore che tutti si aspettano che sia. Emarginazione ed alienazione diventano quindi i due modi in cui si declina il dramma della solitudine di quest'uomo, sin dalle prime battute del racconto della giornata narrata nel romanzo: la casa in cui vive, isolata dalle altre e separata dalla strada da un ponte, è metafora del suo essere ai margini, mentre il luogo da cui egli osserva la vita del quartiere- la tazza del gabinetto- è la cifra del disprezzo del suo sguardo sul mondo.
E così, le 24 ore del giorno si srotolano in un moto sussultorio, con la solitudine a fare da basso continuo e tutto il resto a far da contrappunto- ora la rabbia, ora il dolore, ora il disincanto, ora gli accenti intimi e struggenti di una malinconia che si incarna nella quotidianità degli oggetti- in una partitura che Isherwood dirige con un distacco sofferto e, a tratti eccessivo. La paura di oltrepassare il limite della narrazione, per farsi travolgere da un vissuto di dolore e rabbia, c'è e si sente e mostra la corda laddove la ragione prevale sul cuore: ma quando invece è quest'ultimo a prendere il sopravvento, in questo magistrale equilibrio fra una materia che palpita ed uno stile che raggela, mantenersi impassibili è davvero difficile. Non foss'altro che per la grande lezione di stile.
A voi
Ale
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