martedì 4 agosto 2009

Scarpe italiane- H. Mankell/ Un assassino di troppo- M. Sjowall- P. Walhoo

Non so bene da quanto tempo non mi capitasse di leggere due bei libri di fila, ma ciò è finalmente avvenuto e lo registro qui con soddisfazione: i libri in questione sono Scarpe italiane, di Henning Mankell e Un Assassino di troppo, di M. Sjowall- P. Walhoo, come già saprete se avete dato un'occhiata all'home page, dove transitano come imminenti da tempo ( ono in un ritardo disperato con le recensioni) o se siete miei amici su Face Book.
Quello che però non sapete è che appena ho terminato la lettura del primo, non sono stata a rimuginare su qualcuna delle cose appena lette, nè a lasciar decantare le emozioni o, al limite, a pensare a cosa avrei scritto qui sopra. Perchè, ad essere sincerea in Scarpe italiane non ci sono nè grandi emozioni, nè grandi contenuti, nè grandi cose da dire. E' l'ennesimo Mankell senza Wallander (grrr...) e stavolta anche senza un plot dichiaratamente "giallo", anche se il protagonista, un anziano medico che si è autoesiliato su un'isola remota del mare del Nord dopo aver sbagliato un intervento, è comunque al centro di un'indagine, tutta giocata sul piano dell'interiorità, che lo porterà a riappropriarsi di una vita a cui aveva rinunciato troppo presto e troppo male. Se però vi aspettate introspezioni abissali o elucubrazioni sui massimi sistemi, siete del tutto fuori strada: perché questo è un romanzo crepuscolare, per così dire, dove tutto è filtrato attraverso il rimpianto di chi, a poco a poco, realizza di aver buttato via gran parte della sua esistenza e che quella che gli resta da vivere è troppo poca per poter recuperare quanto perduto. Il rito del buco nel ghiaccio con cui ogni mattina il protagonista si impone di prendere contatto con l'unica parte della vita che ha scelto di salvaguardare- quella delle funzioni vitali, per intenderc, e poco più- diventa quindi metafora di uno spiraglio in una fortezza impermeabile alle emozioni, ai sentimenti, al calore. Da lì ad allargare il varco il passo è breve e verrà compiuto da una strana creatura emersa dal passato- ovviamente una donna, altrettanto ovviamente l'unica mai amata dal chirurgo - e mi fermo qui, perché sennò vi racconto tutta la trama e vi privo del gusto di scoprire da soli come va a finire.
Quello che però volevo dire è che, anche se non è un Mankell a quattro stelle, è sempre un buon libro, se vi piace il genere: scrittura lenta, evocativa, di atmosfera, periodi spezzati, franti, sospesi. Rispetto al solito, le tinte sono un po' più sbiadite, ma le tre ore che si trascorrono in compagnia di questa storia scorrono via in modo rilassante, piacevole e garbato, a conferma della fondatezza di uno degli assiomi a cui sono più affezionata: e cioè che se uno sa scrivere, lo sa fare sempre, indipendentemente da ciò che racconta.
Chi invece sa scrivere e ha anche una gran bella storia da raccontare sono i due autori di un libro che avevo in mente di leggere da un bel po' e che, per alterne vicende, finivo sempre per accantonare. Stavolta, c'è stato un ribaltamento di fronti ed è toccato ad un altro volume essere accantonato in favore di questo e, anche se non so che genere di soprese mi riserverà la prossima lettura, questo è stato l'incontro migliore fatto da qualche mese a questa parte. Dietro i due nomi difficilissimi e reali della copertina si cela la coppia ( pure nella vita, erano marito e moglie) che è universalmente considerata la fondatrice del cosiddetto giallo nordico, quello a cui appartengono Mankell e Larrson, per capirci, e a cui il primo ha sempre riconosciuto di essere debitore, in ogni senso. Il trait d'union, effettivamente, c'è, ed è molto forte: ma la cosa più strana è che, pur avendo operato negli anni '70 ed avendo ambientato le loro storie in quest'epoca, infarcendole di dettagli e di atmosfere che si accordano alla perfezione con lo spirito di quel periodo, sembra di leggere un'opera sì a quattro mani, ma non di M. Sjowall- P. Walhoo, bensì di Mankell e Larrson: il primo ci mette lo stile, il secondo la componente di denuncia sociale e tutti e due un plot sostenuto, intricato, condotto abilmente su binari paralleli e con un'abilità estrema nel dosaggio dei tempi e della tensione narrativa. Come dire, cioè, che nei libri di questi autori c'è già tutto quello che noi abbiamo imparato a conoscere e ad amare leggendo le avventure di Wallander, da un lato, e di Lisbeth e Mikael dall'altro: delle storie forti, inimmaginabili in quel ritratto algido e perfetto con cui si tende a raffigurarsi la Svezia, dei personaggi caldi e appassionati, moderni eroi di battaglie perdute, che cadono e si rialzano in nome di un'eticità incrollabile, dei paesaggi vividi, empatici, che nei loro contrasti riflettono le contraddizioni di una società inquieta, irrisolta e a tratti malata. Il tutto raccontato con uno stile avvincente, che vi tiene inchiodati dalla prima all'ultima pagina- e chissenefrega se questo è il seguito dell'opera prima, se vi mancano dei riferimenti, se scoprite a metà l'identità dell'assassino della storia con cui i due inaugureranno questo fortunatissimo filone ( un libro l'anno, per dieci anni): alla fine, ci siete solo voi e il racconto e le vostre emozioni, che passano dalla tensione, alla commozione, alla rabbia sorda, alla ribellione, al sorriso divertito e, in ultimo, alla soddisfazione di un cerchio che si chiude in una trama perfetta, in una scrittura ben calibrata, in una storia ben condotta, con la certezza di aver trovato dei nuovi amici, con cui potrete stare in buona compagnia, per un po'.
Alla prossima
Alessandra