Vi ricordate l'ultima rece, quando si parlava dei libri "senza pretese" e si diceva che, per molti di loro, il maggior pregio è proprio quello di non voler ingannare il lettore? Ecco, dimenticatevi tutto. O meglio: recuperate tutto quello che è stato detto e metteteci un bel segno meno davanti. Perché "L'ultimo chef cinese", nuova fatica letteraria di Nicole Mones non ha nulla, ma proprio nulla, che lo segnali come libro "onesto", almeno secondo i parametri che piacciono a me.
L'autrice è una ex imprenditrice tessile che ha fatto fortuna nella Cina Maoista degli anni Settanta e che, dopo essersi assicurata quel che si dice una comoda vecchiaia, ha tesaurizzato la sua conoscenza del Paese e si è trasformata in una scrittrice di romanzi che hanno la Cina sullo sfondo. Questo è, più o meno, il sunto di quanto si legge nella terza di copertina e già qui ci sarebbe da muover equalche lieve appunto all'estensore della nota, non foss'altro per chiarire bene che cosa si intenda per "scrittrice" e che cosa significhi "romanzo". Perchè, se con il primo termine, si intende un'artista donna che adopera la penna per stimolare la fantasia del lettore, suscitare riflessioni, evocare emozioni, Nicole Mones soddisfa questi requisiti solo in relazione al sesso- perché pare non ci siano dubbi sul fatto che sia femmina. E se per romanzo si intende una storia basata sull'intreccio della trama, sulla complessità dei personaggi, su scelte stilistiche adeguate alla materia trattata, allora, anche in questo caso, siamo fuori strada. Del tutto. E se proprio vogliamo cavillare sul classico pelo dell'uovo, anche "la Cina" dello sfondo è un riferimento impreciso, visto che della Cina si ha solo una visione stereotipata, immobile, superficiale e laccata: una specie di cartolina, se rendo l'idea, dove l'immagine riprodotta ha subito tante e tali modifiche da renderla del tutto dissimile dalla realtà- e del tutto confondibile con tutte le altre che, al suo pari, sono passate sotto la stessa patina di trucco.
Ad essere cattivi, verrebbe da dire che, più che un romanzo, L'ultimo chef cinese sia un foto romanzo, per giunta senza foto ( e, prima che vi disperiate, tranquilli: sarebbero state fotoshoppate dalla prima all' ultima). Una storia banale, da latte alle ginocchia, di cui si intuisce il finale sin dalla terza pagina, narrata in modo piatto, scolastico, manierato, con dialoghi talmente melensi che le uniche impennate si registrano nella curva glicemica del lettore. Lei è una giornalista gastronomica americana, rimasta precocemente vedova, lui uno chef cinoamericano, tornato in Cina per dare nuovo lustro alla cucina imperiale. In mezzo, un riconoscimento di paternità e una gara fra cuochi, a scandire il ritmo, gli stralci di un antico trattato sull'arte culinaria della Città Proibita e , in fondo, sei pagine di nota dell'autrice sulle laboriose ricerche di cui il libro è frutto. Ed è qui, vedete, che sta la presa in giro. Perché senza questa nota, questo volume avrebbe fatto la fine di molti altri, dal comodino alla rumenta, senza tanto scalpore. E invece, dopo aver letto queste pagine, mi è venuto un nervoso, ma un nervoso, ma un nervoso che il libro finirà lo stesso nella spazzatura, ma non prima di aver subito l'onta di questa rece pubblica. Perché non si può prendere in giro il lettore, millantando una conoscenza approfondita di una tradizione millenaria, per giunta frammentata nei mille rivoli delle tradizioni locali, basandosi solo su una serie di cene di lavoro; non si può prendere in giro chi da anni bussa alle porte di redazioni di riviste, forte di una conoscenza solida e approfondita, dicendo che dopo aver cominciato a scrivere di cucina cinese per Gourmet (Gourmet, capito, non il bollettino parrocchiale) ha avuto l'opportunità di entrare a contatto con il mondo della ristorazione di questo Paese; e infine, non si può sostenere con arroganza di essere riusciti a riprodurre " le citazioni di un falso testo fondamentale di cucina che doveva essere ammirato da tutti" (p. 328) e trovarsi di fronte a pagine che evocano lo stesso misterioso fascino dei testi della scuola alberghiera, dove le citazioni che spiccano sono un "il piacere è tutto mio" fino ad un famigerato "anche no"(p.52). Lascio a voi, infine, il giudizio sui segreti culinari e sullo stile con cui essi ci vengono svelati: " i gamberetti al vino nello stile di Shangai, per esempio: al momento di mangiarli, i gamberi erano ancora vivi, ma così ebbri di vino che rimanevano assolutamente immobili al tocco dei bastoncini" (p. 70).E sorvolo sull'arricchimento delle conoscenze in materia culinaria: oltre lo yin e lo yan, non si va.
Alla fine, l'unica consolazione è il titolo: perché quello, a differenza del libro, lascia una speranza. E cioè che questo chef cinese, per quanto alla fine felicemente accoppiatosi con la giornalista (ops, vi ho rovinato la sorpresa), non prolifichi. O,quanto meno, non abbia figli vogliosi di seguire le orme del padre e del nonno e del bisnonno e così via, quasi fossero dei SuperPippo dagli occhi a mandorla. E che quindi, resti davvero l'ultimo, in tutti i sensi
A domani
Alessandra
L'autrice è una ex imprenditrice tessile che ha fatto fortuna nella Cina Maoista degli anni Settanta e che, dopo essersi assicurata quel che si dice una comoda vecchiaia, ha tesaurizzato la sua conoscenza del Paese e si è trasformata in una scrittrice di romanzi che hanno la Cina sullo sfondo. Questo è, più o meno, il sunto di quanto si legge nella terza di copertina e già qui ci sarebbe da muover equalche lieve appunto all'estensore della nota, non foss'altro per chiarire bene che cosa si intenda per "scrittrice" e che cosa significhi "romanzo". Perchè, se con il primo termine, si intende un'artista donna che adopera la penna per stimolare la fantasia del lettore, suscitare riflessioni, evocare emozioni, Nicole Mones soddisfa questi requisiti solo in relazione al sesso- perché pare non ci siano dubbi sul fatto che sia femmina. E se per romanzo si intende una storia basata sull'intreccio della trama, sulla complessità dei personaggi, su scelte stilistiche adeguate alla materia trattata, allora, anche in questo caso, siamo fuori strada. Del tutto. E se proprio vogliamo cavillare sul classico pelo dell'uovo, anche "la Cina" dello sfondo è un riferimento impreciso, visto che della Cina si ha solo una visione stereotipata, immobile, superficiale e laccata: una specie di cartolina, se rendo l'idea, dove l'immagine riprodotta ha subito tante e tali modifiche da renderla del tutto dissimile dalla realtà- e del tutto confondibile con tutte le altre che, al suo pari, sono passate sotto la stessa patina di trucco.
Ad essere cattivi, verrebbe da dire che, più che un romanzo, L'ultimo chef cinese sia un foto romanzo, per giunta senza foto ( e, prima che vi disperiate, tranquilli: sarebbero state fotoshoppate dalla prima all' ultima). Una storia banale, da latte alle ginocchia, di cui si intuisce il finale sin dalla terza pagina, narrata in modo piatto, scolastico, manierato, con dialoghi talmente melensi che le uniche impennate si registrano nella curva glicemica del lettore. Lei è una giornalista gastronomica americana, rimasta precocemente vedova, lui uno chef cinoamericano, tornato in Cina per dare nuovo lustro alla cucina imperiale. In mezzo, un riconoscimento di paternità e una gara fra cuochi, a scandire il ritmo, gli stralci di un antico trattato sull'arte culinaria della Città Proibita e , in fondo, sei pagine di nota dell'autrice sulle laboriose ricerche di cui il libro è frutto. Ed è qui, vedete, che sta la presa in giro. Perché senza questa nota, questo volume avrebbe fatto la fine di molti altri, dal comodino alla rumenta, senza tanto scalpore. E invece, dopo aver letto queste pagine, mi è venuto un nervoso, ma un nervoso, ma un nervoso che il libro finirà lo stesso nella spazzatura, ma non prima di aver subito l'onta di questa rece pubblica. Perché non si può prendere in giro il lettore, millantando una conoscenza approfondita di una tradizione millenaria, per giunta frammentata nei mille rivoli delle tradizioni locali, basandosi solo su una serie di cene di lavoro; non si può prendere in giro chi da anni bussa alle porte di redazioni di riviste, forte di una conoscenza solida e approfondita, dicendo che dopo aver cominciato a scrivere di cucina cinese per Gourmet (Gourmet, capito, non il bollettino parrocchiale) ha avuto l'opportunità di entrare a contatto con il mondo della ristorazione di questo Paese; e infine, non si può sostenere con arroganza di essere riusciti a riprodurre " le citazioni di un falso testo fondamentale di cucina che doveva essere ammirato da tutti" (p. 328) e trovarsi di fronte a pagine che evocano lo stesso misterioso fascino dei testi della scuola alberghiera, dove le citazioni che spiccano sono un "il piacere è tutto mio" fino ad un famigerato "anche no"(p.52). Lascio a voi, infine, il giudizio sui segreti culinari e sullo stile con cui essi ci vengono svelati: " i gamberetti al vino nello stile di Shangai, per esempio: al momento di mangiarli, i gamberi erano ancora vivi, ma così ebbri di vino che rimanevano assolutamente immobili al tocco dei bastoncini" (p. 70).E sorvolo sull'arricchimento delle conoscenze in materia culinaria: oltre lo yin e lo yan, non si va.
Alla fine, l'unica consolazione è il titolo: perché quello, a differenza del libro, lascia una speranza. E cioè che questo chef cinese, per quanto alla fine felicemente accoppiatosi con la giornalista (ops, vi ho rovinato la sorpresa), non prolifichi. O,quanto meno, non abbia figli vogliosi di seguire le orme del padre e del nonno e del bisnonno e così via, quasi fossero dei SuperPippo dagli occhi a mandorla. E che quindi, resti davvero l'ultimo, in tutti i sensi
A domani
Alessandra