mercoledì 24 ottobre 2012

Sweet Potatoes Pie- e Martha vs Benedetta

sweet potatoes pie- M. Stewart


Ultimo giro per lo Starbooks di ottobre, ma se mai ho acquisito un po' di "occhio", in quest'esperienza, scommetterei qualcosa sul fatto che il nostro saluto a Martha Stewart sia un arrivederci, invece che un addio: nel bottino di queste tre settimane di verifiche, infatti, contiamo ancora tanta curiosità, oltre al divertimento e alla soddisfazione per i risultati. Il che, a ben guardare, è ciò che si cerca in un manuale di cucina: affidabilità e ampia possibilità di utilizzo. E il Martha's American Food, sotto questo aspetto, si aggiudica il punteggio pieno. 

Come d'altronde gran parte dell'editoria anglosassone, mi verrebbe da aggiungere, a corollario di una riflessione che sto facendo da un po', grosso modo da quando ho smesso di acquistare libri italiani (salvo alcune eccezioni) per dirigermi esclusivamente verso il mercato straniero. E da quando, proprio parlando della Stewart, qualcuno di voi ha azzardato un paragone fra quest'ultima e la nostra Benedetta Parodi. Che con la Martha c'entra come i cavoli a merenda, sia chiaro: epperò, proprio queste distanze suggeriscono di andare oltre quello che si vede, per tentare un approccio alla questione che non sia il solito dare addosso a tizio- e magari anche a caio. 
Benedetta Parodi è conduttrice garbata, colta, autoironica, piacevole. Può non riuscire simpatica a tutti, come è ovvio, ma ha una dote che manca alla maggior parte delle conduttrici donna, vale a dire la capacità di prendersi in giro, al momento giusto. E già questo è un punto a suo favore. Ci aggiungo che non urla, non provoca, non è mai sopra le righe, lascia spazio agli ospiti e li valorizza tutti senza mai perdere il filo della conduzione- e vi assicuro che, per il livello medio della nostra televisione, questo è grasso che cola. 
il problema, semmai, è cosa c'èntrino con lei i suoi programmi: perchè tanto la Parodi è professionale nel suo lavoro, quanto i contenuti dei suoi appuntamenti televisivi sono la quintessenza del dilettantismo, nell'accezione deteriore del termine: l'esaltazione di una "non cucina", ottenuta per giunta attraverso scorciatoie al limite della scorrettezza, che ben si collocano nel più generale panorama dell'apparire italico, dove l'importante è millantare. Si millantano giovinezze che non ci sono, competenze che non ci sono, virtù che non esistono, che male ci sarà, a millantare anche di saper cucinare?
Nel programma della Stewart, per contro, questo è assolutamente bandito. Tutto ciò che viene proposto è all'insegna della credibilità: deve essere credibile la ricetta, devono essere credibli gli ingredienti, deve essere credibile la concezione stessa che ispira lo show: se di cucina si tratta, che cucina sia- e lo sia per davvero. 
Sono di corsa e non posso approfondire l'argomento come vorrei: ma credo che si sia capito dove voglia andare a parare. Non sulla bravura della Stewart, non sulla supposta non bravura della Parodi, ma sulle aspettative del pubblico. Perchè è questo quello che fa davvero la differenza ed è questo che noi troppo spesso dimentichiamo. 

 sweet potatoes pie- M. Stewart
 
Il pubblico statunitense, che pure non ha alle spalle una tradizione gastronomica così illustre come la nostra, non transige sulla soddisfazione delle sue aspettative: paga moltissimo, è vero, ma solo partendo da questo presupposto. E i programmi di cucina, anche quelli strutturati come veri e propri momenti di intrattenimento, devono comunque avere dei contenuti chiari e di sostanza: la pie di zucca con la frolla del supermercato e il ripieno della bustina lo so fare da solo, senza che ci sia bisogno che me lo dica tu- sembrano dire gli spettatori al di là dello schermo. 
Da noi, invece, è capitato il contrario. Ed è ovvio che gli autori del programma ci si siano buttati a pesce, a maggior ragione considerato che di tv commerciali si tratta. 
Tutto il nostro patrimonio, la nostra tradizione, i trucchi delle nostre nonne e ele ricette delle nostre mamme,i km zero, i proclami salutisti e gli eataly che nascono come funghi, puff, sono spariti di fronte alla promessa di una crostata perfetta, in 5 minuti. 
E lo stesso vale per la svolta dell'editoria italiana, che ha spinto sull'acceleratore dell'immagine, della grafica, della foto (cosa buona e giusta), tralasciando in molti casi  la parte dei testi (cosa sommamente no buona e no giusta): col risultato che la bella torta della foto, nella mia cucina si è ridotta ad un ammasso informe e impresentabile, anche se ho seguito tutto alla lettera. 
Riprendiamoci i contenuti, mi verrebbe da dire. Che è quello che facciamo noi, nel nostro piccolo, ogni mese, con questa iniziativa, sempre più seguita, sempre più attesa. E questo, forse, è già un bel passo avanti...

Di seguito, tutto qello che abbiamo provato per voi, in questa settmana:

La Apple Pie di Mary Pie: Zesty Crab Cakes
Andante con Gusto: Maple Bundt Cake
Ale Only Kitchen: Buffalo Chicken Wings
Vissi d'Arte e di Cucina: Pigs in a Blanquet
Le Chat Egoiste: Stuffed Mushrooms
Arricciaspiccia: Skillet Cornbread
e su Menuturistico la 

SWEET POTATOES PIE

sweet potatoes pie- M. Stewart



Impasto base per la pie (per due dischi)

360 g di farina
1 cucchiaino di sale
1 cucchiaio di zucchero (circa 30 g)
250 g di burro freddo, tagliato a pezzetti
da 60 a 120 ml di acqua fredda

Mettere farina, sale e zucchero in un robot da cucina e iniziare ad amalgamarli, usando la funzione "pulse". Aggiungere il burro. Usare la funzione "pulse" fino a quando gli ingredienti si sono amalgamati per formare delle grosse briciole (circ 10 secondi). Spruzzare circa 60 ml di acqua sull'impasto e continuate sempre ad impastare nel robot, con questa funzione, fino a quando la pasta inizia ad essere compatta, senza essere bagnata o appiccicosa. Se fosse troppo asciutta, aggiungete un po' d'acqua, un cucchiaio alla volta, aggiungendo il successivo solo quando il precedente è stato assorbito. 
Dividere l'impasto in due dischi, avvolgeteli nella pellicola ed appiattiteli, dando loro la forma di un disco.
Teneteli in frigo, fino a quando diventano freddi- da un minimo di un'ora a tutta la notte. L'impasto può essere congelato e si conserva per un mese: quando decidete di utilizzarlo, è preferibile lasciarlo scongelare in frigo per una notte. 

Sin qui la Martha, ora arrivo io :-)
Dunque, questo è l'impasto base con cui negli USA si preparano le famose pies, una sorta di frolla all'acqua, con molto meno zucchero rispetto alle nostre. Tant'è che al tatto si ha una pasta croccante e friabile, e al gusto un sapore neutro, che è perfetto per accogliere i ripieni. 
La lavorazione è simile a quella della nostra frolla, nel senso che tutto ruota attorno alla temperatura del burro: non si deve scaldare, pena la non riuscita dell'impasto. Di solito, l'optimum è lavorare a mano, e con le mani fredde (basta bagnarle sotto il getto dell'acqua corrente, fredda ovviamente, e ricordarsi di asciugarle prima di iniziare a lavorare): ma se usate un robot da cucina, come la Stewart, dovete usare la funzione "pulse", quella cioè che fa lavorare il motore del robot ad intermittenza. Un po' come la funzione "spiga" del Bimby, per intenderci. 
Consiglio spassionatissimo: iniziate così, nel robot, lavorandolo con questa funzione. Appena si formano le bricioline, cioè poco dopo aver aggiunto i 60 ml d'acqua, trasferite l'impasto su un piano di lavoro leggermente infarinato e proseguite a mano: vi ci vorranno due o tre minuti, al massimo- e in compenso avrete la pasta "sotto le mani": sentirete se è troppo umida o troppo asciutta ed eviterete di lavorarla troppo, col rischio di bruciare il burro e comprometterne il buon risultato.

sweet potatoes pie- M. Stewart

per il ripieno
2 patate dolci, bollite e pelate (circa 6-7 hg)
25 g di burro
150 g di zucchero di canna
2 cucchiai di sciroppo d'acero
1 cucchiaio di bourbon (facoltativo)
1 cucchiaino di estratto di vaniglia
1/2 cucchiaino di cannella macinata
1/2 cucchiaino di sale
un pizzico di noce moscata grattugiata all'istante
250 ml di panna
2 uova, grandi, più un tuorlo
140 g di noci pecan, tostate e sminuzzate grossolanamente
1 cucchiaio di panna

panna montata, per servire


tortiera da 25 cm di diametro
1 disco di impasto base per pies

1. su un piano di lavoro leggermente infarinato, srotolate il disco di pasta e col mattarello appiattitelo fino a dargli la forma di un disco di circa 30 cm di diametro, allo spessore di mezzo cm circa. Eliminate la farina in eccesso. Stendete l'impasto in uno piatto da pie del diametro di 25 cm (io ho usato una tortiera per crostate, dal fondo estraibile, di 26 cm di diametro) in modo che fuoriesca dai bordi di circa un cm. Piegatelo intorno al bordo della tortiera, schiacciandolo per sigillarlo, e decorarlo con i rebbi di una forchetta. Coprire con pellicola trasparente e mettere in frigo da un minimo di mezz'ora al massmo di un giorno

2. Preriscaldare il forno a 190 gradi (grata al centro). Bucherellare con una forchetta il fondo dell'impasto, rivestirlo con carta da forno e riempirlo con fagioli secchi. Infornare e far cuocere fino a quando inizia a brunire, per circa 15 minuti. Eliminare la carta da forno e i fagioli e far cuocere per altri 8 minuti. Trasferire lo stampo su una gratella e lasciar raffreddare. 

3. Con un mixer elettrico, a bassa velocità, montare le patate e il burro fino a quando diventano morbidi. Aggiungere 110 g di zucchero di canna e proseguire con lo sciroppo d'acero, il bourbon (se lo usate), la vaniglia, la cannella, il sale e la noce moscata. Mescolare, fino ad amalgamare bene tutti gli ingredienti. Aggiungere la panna, un uovo intero e il tuorlo. Continuare a lavorare, con il mixer, fino ad avere un composto spumoso.

4. Cospargere la base della pie con il resto dello zucchero e disporvi le noci, tostate e sminuzzate grossolanamente. Versarvi sopra il ripieno di patate dolci. Sbattere leggermente l'uovo rimasto, aggiungervi la panna liquida, amalgmamare e con un pennello da cucina spennellare uniformemente i bordi della torta. Rimettere in forno e far cuocere dai 30 ai 40 minuti, fino a quando il ripeno sarà sodo. Far raffreddare su una gratella. Servire tiepido o a temperatura ambiente, decorato con un ciuffo di panna montata. 

Note mie

Si tratta di una preparazione tipica del Sud degli States, che è tradizione preparare per il Ringraziamento: quindi, aspettatevi sapori insoliti- e qui ci aggiungo un "finalmente", d'ufficio, visto che di cucina americana inchiodata ai soliti gusti non se ne può più. Per molti versi, ricorda la pumpkin pie, a cui si avvicina moltissimo anche nell'aspetto: ma, di nuovo, il riferimento è a sapori inusuali, dolciastri, speziati, così lontani dai nostri che possono non incontrare il favore di tutti. Da noi, per esempio, hanno proprio spaccato i pareri in due: mia figlia che pure è l'artefice di questa torta (tutta lei, la fece), non ne ha voluto assaggiare neanche un pezzetto; mio marito, in compenso, se la sarebbe mangiata tutta. E lo stesso è accaduto il giorno dopo in ufficio: non ne è avanzata neanche una briciola, ma ho il sospetto che le mandibole responsabili di tale razzìa siano quelle di due o tre colleghi- e non di tutti quanti. 

Ciò premesso, è un'ottima torta. Molto ben equilibrata nelle consistenze e nei sapori, morbida al punto da poter essere tranquillamente servita alla fine di un pasto (nasce per questo, in effetti), assolutamente nuova se anelate agli effetti speciali. Le patate dolci si trovano un po' dappertutto (da noi, anche al supermercato) e si cuociono esattamente come le altre: acqua fredda, portata poi a bollore. Tenetevi parchi col sale, ovviamente, trattandosi di un ripieno dolce: un cucchiaino basta e avanza.


sabato 20 ottobre 2012

Elif Shafak, La Bastarda di Istanbul






Se avessi dato retta ai miei gusti e al mio istinto, questo romanzo non sarebbe mai finito negli scaffali della nostra libreria: rifuggo come la peste le scene di violenza, ancor peggio se su donne e bambini, e trovo a dir poco fastidioso che l'editoria di questi anni abbia sfruttato a fini palesemente commerciali un filone così delicato come quello del libro-denuncia o del libro-confessione. Il che non significa che non si debbano pubblicare romanzi che tocchino tematiche del genere, anzi: non c'è come la pagina scritta che abbia il potere di diffondere idee e sollecitare coscienze. Ma, mai come in questo caso, est modus in rebus: e mettersi a pubblicare tutto quello che si trova, sulla scia del meritatissimo successo di Leggere Lolita a Teheran o Il libraio di Kabul, per dire, fa un pessimo servizio: alla sensibilizzazione delle coscienze e alla pazienza dei lettori: perchè se mai c'è qualcosa che indigna di più del  sospetto che una materia così drammatica e delicata venga sfruttata a fini di lucro,  questo è vederla scritta con i piedi. Cosa che, purtroppo, succede nove volte su dieci. 

Questo, dunque, è il motivo per cui quando vedo da lontano un titolo che anche lontanamente possa farmi sorgere il dubbio che possa appartenere a questo genere, cambio reparto: devo averlo fatto anche con La Bastarda di Istanbul, a ripensarci, visto che possiedo un'edizione ultra economica, frutto di non so più quante ristampe. Ma, in questo caso, ho fatto male. E faccio pubblica ammenda qui sopra, con una rece doverosamente breve ma intensa :-), quale tocca di solito a tutti i romanzi che, in un modo o nell'altro, hanno toccato le corde del mio cuore. 

A dispetto del titolo, la ragazza di padre ignoto e di madre volutamente confusa nel mucchio delle tante zie, è una delle due protagoniste del romanzo: l'altra è una ragazza americana, figlia di una ragazzona dell'Arizona e di un armeno, sposata in seconde nozze con un turco. Nonostante le differenze culturali e ambientali, le famiglie delle due ragazze si somigliano, unite come sono da un  filo rosso di antichi rancori, che nel caso di Armanoush ha preso le forme di una delle più strazianti tragedie del secolo scorso (il genocidio degli Armeni), che qui diventa paradigma di un vivere quotidiano intessuto di piccole rivalità e di dispetti. E' un dispetto fatto alla ex suocera, per esempio, la scelta di un nuovo marito turco fatta dalla mamma di Armanoush, incapace di riprendersi dalla felare notizia del matrimonio dell'unico figlio maschio con una donna non armena; ed è una trafila infinita di dispetti quella che scandisce la vita della famiglia di Asya, ad Istanbul, tutta popolata di donne turche, dalla nonna alle sue quattro zie, visto che l'unico figlio maschio non solo ha osato lasciare la Turchia per studiare negli Stati Uniti, ma si è addirittura fermato là per sempre. In un panorama tutto al femminile, non stupisce che sia questo unico figlio maschio l'anello della catena che farà incontrare le due ragazze: Armadoush vive la sua identità di armena in modo sempre più conflittuale, soffocata dal rigore del ramo paterno e bramosa di conoscere direttamente la verità e per questo decide di partire per Istanbul, senza dir nulla a nessuno, chiedendo ospitalità alla famiglia del marito di sua madre. Che, ovviamente, è il fratello delle tante zie di Asya, che con lei ha in comune i 19 anni e il tormento della sua condizione. La prima è solare, semplice, diretta; la seconda è inquieta, seducente, tenera nel suo essere arrabbiata col mondo: diventano amiche ed iniziano assieme un viaggio nel tempo, alla scoperta di una storia di dolore, unico modo per poter sganciare le zavorre del loro passato e librarsi nell'aria pulita del loro futuro. Un cerchio che si chiude, là dove era cominciato, ma che apre ad entrambe le porte di una verità scomoda, inquietante, traumatica, a suggello di un lacerante rito di passaggio nel quale le domande troveranno risposta e la confusa incertezza di una identità celata si perderà per sempre, nella scoperta delle proprie radici e nel nuovo coraggio per affrontarle. 

Un tema così inquietante (e tre: di solito, odio le ripetizioni, ma ci son situazioni che inchiodano al vocabolario) è pericolosissimo da narrare. Perchè il rischio di finire nello splatter, nella pornografia, nella volgarità è costantemente dietro l'angolo. A meno che non si sappia scrivere, cosa che la Shafak sa fare e pure bene. Tant'è che trasporta tutta l'angoscia delle sue tematiche in un ambiente vivo, moderno, stimolante, giovane, ironico, dissacrante e la sviluppa in un romanzo, nel senso vero del termine: tanti personaggi, con i protagonisti cesellati in ogni dettaglio e via a sfumare, in una galleria di personaggi variopinti, ognuno con una fisionomia sua propria, a volte un po' troppo caratteristica, come d'altronde è inevitabile se si sceglie la via dell'umorismo. perchè- strano ma vero- in questo libro si ride. e lo si fa sullo sfondo di una Istanbul contemporanea, che morde il freno della modernità, che ci svela le sue mille facce, così differenti, così nuove, così contraddittorie, raccontate senza mai giudicare, con il distacco benevolo di chi sa amare, comprendere, perdonare. 

Grandissimo libro, davvero. 
buon fine settimana
Ale


sabato 13 ottobre 2012

Topless Oblige

Julian Followes, Snob





La rece vera e propria è più sotto. Qui, ci son solo due ricordi personali, tratti dal "libro della mia vita"- quello che non ho mai scritto e mai scriverò. Ma ogni tanto, qualcosa mi scappa...


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Aneddoto familiare n. 1

Qualche anno fa, in occasione di un breve viaggio a Venezia, avevamo soggiornato come ospiti paganti in una villa veneta. Ci aveva indirizzati lì un'amica comune e fummo accolti con grande familiarità, tant'è che ci vennero anche presentati i pro nipoti, coetanei di mia figlia, invitando i bambini a giocare insieme. La dimora che ci ospitava era il classico edificio storico gravato da spese inenarrabili, rese ancor più insostenibili dal fatto che nessun membro della famiglia avesse un impiego retribuito. E così, accanto ad opere d'arte di valore inestimabile, c'erano dispenser di sapone pieni d'acqua insaponata; nel cestino del pane della colazione, di manifattura rinascimentale, stazionavano gli avanzi della sera prima; e alle estremità delle decine di bracci dei giganteschi lampadari che adornavano i soffitti, esalavano una tremula luce solo tre o quattro lampadine a basso consumo energetico. Una vita di relazioni trasversali mi aveva abituato a questa coabitazione, per cui non ci avevo fatto troppo caso: non così mia figlia, che si trovava allora per la prima volta a contatto con un ambiente fino ad allora mai frequentato. Tant'è che la sera, alla nostra domanda su come avesse trascorso il pomeriggio con i suoi ospiti, lei aveva risposto, dubbiosa, che anche se avevano la sua età, erano "strani". 
"Non sono 'strani', Carola- le avevo detto- sono solo nobili".
Ed ero partita con una lezione sulle classi sociali, spiegandole che oggi certe differenze non si sentono più, ma che ancora esistono ed è per questo che ci sono bambini che pportano nomi antichissimi e che vivono in case che per noi sono musei e che studiano la storia sulle pareti dei loro saloni, mentre noi la studiamo sui libri. 
La creatura aveva ascoltato, attenta, tutte le mie parole, e alla fine aveva concluso, seria: "ho capito, mamma. Loro sono nobili- e noi siamo ricchi"

Aneddoto familiare n.2

L'amica nobile (e ricca, lei sì,  per davvero) dona parte degli archivi di famiglia ad un ente pubblico e mi invita alla cerimonia di consegna. A pranzo, capito in una tavola tutta blasonata e oltre a scoprire che esiste un'altra geografia, fatta di ducati, contee e principati, vengo introdotta all'iniziazione all'ingresso in società dei giovani rampolli, che prevedono corsi di ballo a Parigi, tenuti dalla ex principessa russa, bis bisbisnipote dello zar, battute di caccia alla volpe ed altre amenità del genere. Tempo cinque minuti mi ambiento e dopo un po' vengo assorbita nelle conversazioni, al punto che la mia vicina mi confida che anche lei ha un figlio di 4 anni, la stessa età della mia (di allora). 
"Potremmo presentarli, cosa le pare?"
"Molto volentieri", deglutisco io
"Quante lingue parla, sua figlia?"
"Mah... sa... a quattro anni... è bilingue", mi salvo in corner, graziata da una bisnonna che le parla solo in genovese e un nonno che non è da meno.
"Ah". Moto di disappunto, di chi se ne aspettava almeno tre e tutte fluenti. "E cosa fa?"
... come, cosa fa? a quattro anni, cosa fa? cioè, mi chiedo: cosa fa, una bambina di quattro anni? gioca, no?  e così, mi industrio e annaspo " mah... nuota (e faccio finta di non vederla nei 3 cm di profondità della piscina comunale, circondata da paperelle e palline galleggianti), scia (e di nuovo, chiudo gli occhi sull'abbonamento giornaliero dimenticato sotto mucchietti di neve, che non voio sciare, voio fale il pupazzo), balla (questo, almeno, è vero. Pure il valzer di Strauss, che a casa nostra per tradizione familiare è la musica del ballo di Cenerentola)..."
Il disappunto si è impadronito del volto della mia commensale
" e poi?"
Mi arrendo
"E poi, basta: ha quattro anni"
Sopracciglia inarcate, labbra tese, respiro profondo - e poi: 
"il mio, imbalsama"
Mi strozzo col consommè
"come ha detto, scusi"
"Imbalsama- me lo ripete, sillabando, bontà sua- "Im-bal-sa-ma. Gli uccelli morti, che trova nei viali della tenuta. e' la tradizione di famiglia, e lui la persegue sin d'ora. Dice che sua figlia potrebbe trovarlo di suo gradimento?"


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Lo sapevate voi che Julian Fellowes è lo sceneggiatore di Downtown Abbey e, qualche tempo prima, pure di Gosford Park, che a lui fruttò un Oscar e a me una lite memorabile con il non ancora marito, colpevole di essersi annoiato di fronte ad un film che per me era l'equivalente di un giardino di delizie e per lui un concentrato di bromuro?
Io no. 
Tant'è che quando ho comprato questo libro, l'ho fatto solo perchè convinta a)dal titolo; b)dalla casa editrice; c) e dalle promesse dei risvolti di copertina, che preannunciavano una satira pungente della high class britannica, scritta con una penna impietosa e graffiante. L'ho letto di un fiato e mi sono pure divertita, tanto da inaugurare la catena del prestito ai cari amici vicini, a consigliarne la lettura ai lontani e a pensare di parlarne anche qui sopra, prima o poi. 

Partiamo dalla trama, che è leggera e divertente: Edith Lavery  è la figlia di un revisore di conti e di una mamma che deve la sua formazione a Point de Vue, Sunday People e Araldica Oggi e che, al pari di tutte le mamme di questo mondo, desidera vedere la figlia sistemata, meglio se sotto un velo di tulle lungo 15 metri che copre metà della passiera di Westminster Abbey e un blasone nuovo di trinca come regalo di nozze della suocera. Da brava figlia, Edith fa di tutto per far felice sua madre e ci riesce alla grande, facendo capitolare nientemeno che lo scapolo d'oro più ambito dal parterre delle nobili fanciulle da marito, figlio di una inossidabile rappresentante della vecchia guardia di una classe sociale lasciata a combattere da sola contro chi attenta alla sua essitenza- vale a dire gli esattori delle tasse e i parvenu. Edith ce la fa, dicevamo, ma una volta assurta al ruolo di contessa- toh che strano- non riesce a reggerne lo stile di vita. Evidentemente, nella libreria della mamma mancavano le biografie di Lady D. e forse sarebbe stato meglio un ripassino veloce delle interviste della principessa sul bel caratterino dei suoceri e sul nitrito di Camilla, con tanto di ferma-immagine sullo sguardo perso nel vuoto e il "dammi una lametta che mi taglio le vene" in sottofondo. Ma Edith non è Diana Spencer e suo marito ha in comune con Charles solo il nome: tant'è che è lei a lasciarlo, per l'attore belloccio e altrettanto ambizioso, abile a succhiare popolarità dallo scandalo e palesemente infastidito dall'amore che lei prova per lui. Lascerà anche questo, constatato che l'orario continuato dalle 9 alle 5, con pausa pranzo spesa nel supermercato di fianco all'ufficio non è quella che fa per lei, riuscendo nella mission impossible di riconquistare il marito, sgominando la corazzata Potemkin della suocera e delle sue amiche, prossima sposa prescelta inclusa. Da lì in poi, Edith sarà la moglie aristocratica perfetta, con tutti i requisiti adatti per entrare di diritto nella galleria dei ritratti di famiglia, nel vestibolo: cani, cavalli, magione avita e pure il figlio illegittimo, a coronare uno stile di vita consolidato e intramontabile. 

Fin qui la trama- che però è ingannevole: perchè ad essere protagonisti di questa storia non sono nè Edith, nè Charles nè la voce narrante, l'amico di famiglia del conte di Broughton che però sceglie la via del palcoscenico, anzichè quella della campagna inglese, bensì l'intera classe sociale a cui il titolo del romanzo si ispira: gli Snob sono Edith e il suo entourage, ma a campeggiare sulla scena sono quelli che la nobilitas ce l'hanno- e pure nel profondo delle ossa. Fellowes li sceneggia, ancor prima che descriverli, con un acume a cui nulla sfugge, dagli odiosi nomignoli alle parche mense, dalle stanze fredde alle tubature gelate, da privilegi di casta gelosamente custoditi- e non c'è passare de tempo che tenga. E tuttavia, Fellowes non li condanna: ce li racconta, ce li rappresenta, non ci nasconde nessuna delle loro magagne, ma senza mai affondare la lama del coltello fino in fondo. Per chi lo ha paragonato a Jane Austen (e sono in tanti, ad averlo fatto) questo è un difetto, pure imperdonabile. Ma per me, che della Austen vedo poco o niente, a parte l'analogia dell'ambientazione sociale, è quasi un pregio. Come dire, non vogliamo troppo male a questi nobili che, per quanto deprecati e bistrattati, hanno dimostrato di saper resistere a tutto e di saperlo fare con lo stile che da smpre li ha contraddistinti e che, nel caso della nobiltà britannica, si tinge di misura, intelligenza e sense of humor. 
Piuttosto, là dove la penna di Fellowes è intinta in un inchiostro più velenoso, è nella resa dell'ambiente televisivo: è un particolare che è stranamente sfuggito ai recensori del romanzo, ma è proprio nei ritratti degli attori, nel mettere a nudo una mediocrità che si pasce di scandali e di opportunità da sfruttare e un egotismo inversamente proporzionale al talento che Fellowes spara a zero: lo fa con la solita sagacia, ma con un minore distacco, probabile spia di un coinvolgimento maggiore, che spezza la punta alle sue frecce, con qualche colossale "cilecca". 
Recensori più attenti di me hanno anche notato alcuni grossolani errori di tipo narratologico: la storia è raccontata in prima persona- focus interno, per quelli che se ne intendono- e quindi non si spiegano certe descrizioni, riferite ad episodi avvenuti lontano dagli occhi del narratore, ma che lui invece racconta con dovizia di particolari, come se fosse stato presente. 
Quisquilie, se posso permettermi. Esattamente come il paragone con la Austen, con Waugh, con Woodhouse e con altri immensi fustigatori di epoche e di costumi. Followes non è nulla di tutto questo, ma non per questo è autore da trascurare, anzi: il messaggio di Snob- vale a dire, che nobili si nasce- è forte e chiaro e mai così attuale, all'indomani dello scandalo da tabloid dell'ultimo scivolone della Casa Reale britannica, ad opera di una deliziosa parvenu che non ha resistito a togliersi il pezzo di sopra del bikini davanti ai raggi del sole della Provenza, dimenticando di essere l'erede al trono d'Inghilterra.
Come dire, Jane Austen lasciamola dov'è. E i reggiseni, anche.




sabato 6 ottobre 2012

Cinquanta Sfumature di....

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Rompo il riposo del Sabato, un po' per l'insonnia, un po' perchè sarebbe anche ora di riprendere le buone abitudini delle rece e un po' perchè era da parecchio tempo che non mi capitava di trovarmi avvinta come l'edera ad un romanzo che, stando alla quarta di copertina, non sarebbe mai dovuto finire nel carrello della mia spesa. Anzi, a dirla tutta, l'unico motivo per cui l'ho comprato è l'amore che mi lega a questa casa editrice, che con Amber inaugura una nuova collana, dedicata ai best seller di un tempo neppure troppo lontano, che oggi non s'usano più (e poi un giorno magari parleremo anche di un'altra di quelle cose che oggi non s'usano più, di quando i libri si acquistavano solo perché Einaudi o Sellerio e oggi invece bisogna leggersene metà, in bilico fra gli scaffali,  augurandoti che l'attacco di mal di schiena ti aggredisca quando sei arrivata almeno a capire se vale la pena di aprire il portafogli  o meno- ma non divaghiamo)

Nessun requisito per piacermi, dicevo, a cominciare dal paragone con Via col Vento, libro che nè possiedo nè ho mai letto (e a questo punto è inutile che aggiunga che neppure ho visto il film): non mi piacciono i polpettoni anni Quaranta, non mi piacciono gli stereotipi e delle buone maniere, francamente me ne infischio. Esattamente come mi sarei infischiata di questa Amber presentata come l'anti- Rossella, paladina di un' "emancipazione" conquistata a colpi dell'unica arma femminile che preferirei veder sepolta viva, anzichè trovarmela sulle prime pagine dei giornali un giorno sì e un giorno anche, magari associata a minorenni e borse di Gucci, ma tant'è: il libro è finito nella borsa e poi sul comodino e da quel momento lì non ce n'è stato più per nessuno, almeno fino a quando non sono arrivata in fondo alle quasi 900 pagine di una storia che mi ha tenuta incollata al romanzo come non mi succedeva da tempo

L'epoca, anzitutto: non quella dell'ambientazione della storia, ma quella in cui essa venne pubblicata. Siamo nel 1944, negli Stati Uniti- e nel 1945, in Gran Bretagna e nel 1948, in Italia- negli anni della ricostruzione, della miseria, dei sacrifici, in nome di un passato che non si voleva mai più rivivere e di un futuro che si annunciava gravido di opportunità e di conquiste sociali. Un'epoca di grande fermento, insomma, da cui le donne non erano certo immuni, anzi: l'esperienza della guerra, che le aveva obbligate a supplire gli uomini al fronte, in ruoli tradizionalmente maschili, aveva dato loro una nuova fiducia nelle capacità di un genere condannato da secoli ad una posizione di secondo piano. Tuttavia, la mentalità comune le voleva ancora inchiodate ad un destino stereotipato, sordo alle loro inclinazioni, ai loro desideri e alle loro aspettative e quanto più serpeggiavano questi fermenti, tanto più forte era la repressione, affidata anche a forme di persuasione più o meno occulta, che appiattivano l'immagine della donna "per bene" su canoni di comportamento omologati e intrisi di retorica e di moralismo. 
Ovvio che il "domani è un altro giorno" di Rossella O' Hara apparisse come il massimo della ribellione. Meno ovvio che, negli stessi anni, avesse preso a circolare anche un romanzo che oggi farebbe apparire le Cinquanta sfumature di grigio poco meno che ombre sottili, ma che all'epoca fece gridare allo scandalo mezzo mondo: non solo fu bandito da tutte le librerie di Boston, ma fu anche messo all'indice in 14 Stati e considerato responsabile di "70 riferimenti all'unione carnale, 39 a gravidanze illegittime, 7 ad aborti, 10 scene in cui le donne si spogliavano davanti a uomini con cui non erano sposate e una cinquantina di scene variamente pruriginose", come ricorda la Aspesi in una bella recensione su Repubblica. Sempre la Aspesi, ricorda gli ammonimenti del Production Code, il cosiddetto Codice Hays, una sorta di decalogo che vegliava sul cinema di quesgli anni, con l'intento di promuovere comportamenti edificanti nella società americana (e vietando, pertanto, i matrimoni fra persone di razze diverse, quale massimo esempio di edificazione morale, tanto per dirne una, oh yeah): guai a fare di Amber un film, si disse. E difatti, neanche un anno dopo, uscì nelle sale la versione cinematografica del libro, talmente "candeggiata", però, che non se la filò nessuno, a differenza di quanto era accaduto, pochi anni prima, con la premiatissima coppia Brent&Rossella. E così, di lì a poco, anche la fama del romanzo si spense, e Amber fu destinata all'oblio,  dimenticata sul fondo delle vecchie credenze o celata da innocenti copertine dalle abili mani delle nostre nonne. 

Ci son volute due generazioni a riportarlo in auge, come ricorda, in questa edizione Barbara Taylor Bradford, che trovò il romanzo proprio in un cassetto della cucina di sua nonna. Al di là delle facili battute sul DNA, resta il fatto che questo libro abbia segnato un'epoca e che, solo per questo, non meriti di essere dimenticato. 
Da qui a leggerlo solo come testimonianza di un periodo, però, ce ne passa: perchè, come dicevo all'inizio, il romanzo scorre che è un piacere, grazie ad una trama ricca di colpi di scena e ad una scrittura assolutamente felice: l'autrice, Kathleen Winsor, aveva molti tratti della sua eroina, quanto meno stando alla sua biografia, nella quale i matrimoni si succedono come grani di un rosario, dal primo, appena diciassettenne, con un compagno di università, al più famoso, con il jazzista Artie Shaw (quello di  e di Lana Turner e di Ava Gardner, a cui, ironia della sorte, aveva proibito la lettura di Amber, ben prima di sposarne la sua autrice); in seguito, ci furono l'avvocato che ne aveva curato un divorzio e finendo in gloria con un miliardario amricano, che la proiettò nella mondanità del jet set dei favolosi Anni Cinquanta a stelle a strisce.  Per quanto strano possa sembrare, però, il marito a cui la Winsor fu più debitrice fu il primo, il meno ricco e il meno famoso: è a lui infatti, studioso di storia inglese, che si devono i germi di quella passione per il periodo della Restaurazione che, assieme ad Amber, è il vero protagonista del libro. A detta dell'autrice, lei lesse quasi 400 tomi sull'argomento- e in tutta onestà, non c'è ragione di dubitarne: la precisione storica è puntuale, capillare, al limite del maniacale, e la si apprezza sia nei grandi affreschi della politica di quegli anni, sia nella ricostruzione degli ambienti e dello stile di vita dei tempi, descritti in modo attento e minuzioso: dagli abiti ai menu, dagli arredi alle acconciature, chiare pennellate che contribuiscono a creare un quadro storico di rara precisione, in un romanzo dichiaratamente "femminile" come questo. L'Inghilterra qui rappresentata è quella del dopo Cromwell, del ritorno degli Stuart a palazzo, nella persona di quel Carlo II bello e impossibile, che trasformò Whitehall in un bordello di lusso, fra intrighi, festini, amori cortigiani e tutto quanto fa Olgettina di lusso. Ma è anche la Londra della peste, del Grande Incendio, del Teatro del Re che apre alle prime attrici donne (l'ascesa sociale di Amber inizia proprio dal palcoscenico), della miseria e del lusso, dei banditi e degli usurai, degli astrologi e delle cameriere personali, del netto contrasto fra la salubrità della vita di campagna e i miasmi della vita londinese,  da cui la Corte, naturalmente, è la meno immune di tutti. 

In mezzo, c'è Amber,frutto di una nobile colpa,  ma cresciuta in campagna- la madre, morendo di parto, la affidò ad una contadina- che a sedici anni fugge aggregandosi ad un gruppo di cavalieri di passaggio, folgorata dall'amore per Bruce Carlton, bello, nobile e irresistibilmente bastardo, che le dice da subito quello che ogni donna emancipata vorrebbe sentirsi dire- e cioè che ne farà uno strumento di piacere, ma il matrimonio, mai e poi mai. Amber si adegua e, dopo un primo sbandamento iniziale, capisce che il vero segreto per l'ascesa sociale non è concedersi tout court, ma concedersi all'uomo giusto. Inizia quindi una trafila di "uomini giusti" che, scalino dopo scalino, la porterà a diventare la favorita del re, con tanto di ducato, palazzo nobiliare in città e pied à terre a Whitehall e figli bastardi d'ordinanza. Il tutto senza mai dimenticare lord Carlton che, nel frattempo, avrà mantenuto fede alle promesse, facendo fortuna nella pirateria legalizzata (corsari, si chiamavano), accumulando una flotta ed ingenti ricchezze, prendendo un prudente indirizzo americano e sposando un'altra, più giovane, più titolata e più ricca, di cui, orrore degli orrori, si professa pure innamorato. Questo non gli impedisce di divertirsi con Amber, seppur controvoglia, e di portarle via il primo figlio, il cui destino di futuro Lord Carlton gli impone di essere allevato da una madre come si deve- e pazienza se è quella Lady Carlton che, non paga di averti portato via tutto, si aggiudica anche questa posta. 

Sia chiaro: Amber è tutto, fuorchè una vittima. Si prende gioco di chicchessia, si pasce di intrighi, si vende al miglior offerente, senza che questo le provochi il minimo senso di colpa. E' una donna attenta solo alle apparenze, scaltra, pettegola, doppiogiochista e chi più ne ha più ne metta, tanto che, a tre quarti del romanzo, finisce per essere antipatica anche alla sua autrice: ne è prova il finale beffardo, ancor prima che ironico, a compimento di una condotta costellata di scivoloni plateali, tanto più sorprendenti quanto più riconducibili ad una che sulla scaltrezza e sulla padronanza di sè si è costruita il conto in banca. Ma si vede che, alla lunga, certi comportamenti stancano: la Winsor è sublime, nel non farsi mai sfuggire un giudizio morale e il finale è aperto proprio su questo, ancor prima che sulla trama: non solo nn sappiamo che cosa succederà di lei, ma neppure sappiamo che cosa di lei pensi la sua stessa autrice: il che, a ben guardare, è ciò che rende lieve una materia che leggera non è, proprio per niente.


buon fine settimana
Ale