Nella mia precedente vita, quella della professione importante e prestigiosa, dovevo rilasciare qualche intervista, ogni tanto . Il meno possibile era la regola che, in quel caso, coincideva anche con la mia volontà personale, specialmente dopo aver visto con che disinvoltura parole scelte con attenzione e soppesate con cautela venivano stravolte e distorte, alla ricerca del titolo da prima pagina o della conferma a versioni preconfezionate. Alla fine, questi appuntamenti con la stampa avevano la stessa allegria di una seduta dal dentista, visto che, in entrambi i casi, la bocca la dovevi aprire per dovere e non vedevi l'ora di chiuderla e di scappartene via
Solo una volta, dieci anni fa, mi accordai per una intervista rilassante. L'occasione non aveva nulla a che vedere con il mio lavoro ma nasceva da una iniziativa benefica, una scuola di cucina (la mia) che aveva organizzato un pranzo per raccogliere fondi per una missione in Africa. La notizia era che, in mezzo ai generi di prima necessità, erano comprese anche le maglie di calcio del Genoa per la squadra dei ragazzini del villaggio e questo aveva innescato una specie di derby cittadino, con alcuni calciatori dell'altra squadra (Cassano su tutti, generoso e disponibile come nessuno) che avevano offerto le loro maglie per un'asta benenfica. A farla breve, in città se ne parlava e quindi mi era toccata l'intervista. Una chiacchierata tranquilla, finalmente, in cui a fare da protagonista sarebbe stato il cibo e non antipatie ataviche contro l'istituzione che rappresentavo, quando slacciavo il grembiule e indossavo il tailleur. E tranquilla si rivelò, questa chiacchierata, almeno fino all'ultima domanda, quando mi venne chiesto quale fosse il mio piatto preferito.
Erano gli anni delle prime ribalte televisive degli chef veramente famosi e con mio marito scorrazzavamo su e giù per l'Europa a provare menu stellati, con esperienze gastronomiche che ricorderemo per tutta la vita. Ero fresca di cucine molecolari, di nuove interpretazioni di territori, di sapori che aprivano al palato un mondo fino ad allora inimmaginabile, di giochi di consistenze divertenti ed emozionanti... eppure, l'unica cosa che mi veniva in mente era la crostata di mia nonna.
La risposta non aveva soddisfatto neppure il mio interlocutore che, dopo un quarto d'ora speso a tenere a bada i ricordi di quando voleva fare il reporter di guerra e si ritrovava a parlare con una casalinga disperata, si aspettava almeno un piatto lungo tre righe, pieno di vezzeggiativi e altre amenità. Ma niente: più lui incalzava, più la mia mente si inchiodava a quella pasta frolla, a quella marmellata bruciacchiata sui bordi, a quelle griglie imperfette che toccavano a noi bambini, obolo da pagare in cambio della prima fetta di quella bontà. 
E crostata fu alla fine-e da quel momento, per me, lo fu per sempre. Recuperai la ricetta di mia nonna e a quella restai fedele, in secula seculorum, a dispetto dei corsi, dei libri, degli scambi con amiche esperte e cosi via. E' il sapore dell'infanzia, quello che fa la differenza e che, nelle altre ricette, non c'è.
E crostata fu alla fine-e da quel momento, per me, lo fu per sempre. Recuperai la ricetta di mia nonna e a quella restai fedele, in secula seculorum, a dispetto dei corsi, dei libri, degli scambi con amiche esperte e cosi via. E' il sapore dell'infanzia, quello che fa la differenza e che, nelle altre ricette, non c'è.
L'unica eccezione è costituita dalla Crostata Meringata al Limone.
E' un tormentone costante, perchè non c'è volta in cui non mi imbatta in una ricetta nuova che non corra subito in cucina a provarla. Anche qui, la ragione è la stessa: dalla nonna crescevo con merende della tradizione, con la mamma assaggiavo le cose più strane ed esotiche che, allora, erano una crostata con il lemon curd e uno strato molliccio di meringa sopra. Neanche a dirlo, come mia mamma non la fa nessuno e il sapore della memoria non c'entra: la signora è viva e vegeta e ogni volta che cucina mi inchioda serenamente ai miei limiti, di figlia appassionata ma meno talentuosa, per non parlare dei contrappunti di mia figlia, che vanno da un condivisibile "come la nonna, nessuno mai" fino all'altrettanto condivisibile ma meno confortante "te, comunque,non c'è pericolo, eh, mamma....".
La ricetta di mia madre, ve lo dico subito, è tutta nelle sue dita. Nelle manciatine, nei pizzichi, nell'un po' di questo e un po' di quello che sono l'apice della frustrazione, mia e sua, al momento di ricreare il piatto del giorno prima. Pazienza, sia chiaro, perchè intanto qualsiasi cosa tirerà fuori da questa improvvisazione costante sarà senz'altro una meraviglia. Però mamma, due righe, mentre cucini, una tantum, magari....
Anyway, oggi si cade in piedi perchè, per celebrare degnamente la Giornata Nazionale della Crostata, ho scelto la versione di Knam. Pasticcere straniero ormai italianizzato che interpreta un dessert straniero, ormai italianizzato. Che l'incontro sia felice lo potete intuire dagli ingredienti e dal procedimento, visto che Knam è rimasto uno dei pochi addetti del settore che ancora la fa facile (un monumento, solo per questo). E facile lo è davvero, con un risultato che tradisce la semplicità dell'esecuzione. Una porca figura a tutto tondo, insomma, con cui festeggio assieme ad altre 14 amiche una delle giornate più dolci dell'anno!
La ricetta è qui
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