Pomegranate Soup è il titolo originario di questo romanzo, tradotto in Italia con un più vago “Caffè Babilonia" che, se ha il merito di attirare più acquirenti, facendo l'occhiolino alla seduzione delle atmosfere da Mille e una Notte, decapita la storia della sua connotazione più specifica, quella che avrebbe automaticamente selezionato il pubblico dei lettori fra amanti della cucina da una parte e resto del mondo dall'altra: perché, al di là delle mille parole che si son spese per promuovere e recensire questo libro, è indubbio che la cucina, e non altro, sia la vera protagonista della vicenda.
Il romanzo narra la storia di tre giovani sorelle iraniane (dall' “intorno ai trent'anni” della maggiore fino ai 15 della minore), costrette a fuggire dalla loro patria al tempo della rivoluzione e trasferitesi dai sobborghi di Londra in un piccolo villaggio dell'Irlanda occidentale, dal solito nome impronunciabile (la grafia è Ballinacroagh, e mi fermo qui) e dalla solita atmosfera da brochure dell'Ente del Turismo, placida, tranquilla, un po' sonnecchiosa. Almeno fino all'arrivo delle tre ragazze e del loro ristorante, quel Caffè Babilonia, per l'appunto, le cui ricette esotiche porteranno scompiglio e turbamento nei ritmi collaudati e rasserenanti di una quiete solo apparente, ma che in realtà nasconde pregiudizi e interessi personali e tutto quanto fa sepolcro imbiancato, per intenderci.
E' ovvio che, dopo aver letto questo riassunto, sul risvolto di copertina, io abbia rapidamente posato il libro sugli scaffali della libreria da dove lo avevo preso. Nel senso che, per quanto rispetto si possa avere per i giovani autori – e l'autrice, Marsha Meheran, lo è- e le loro opere prime – e Caffè Babilonia lo è- si pretende da loro non dico un capolavoro di scrittura e di trama, ma almeno un briciolo di originalità: di spendere 15,50 euro per un romanzo che si annunciava in partenza, come un collage di Chocolate e di Leggere Lolita a Teheran, passando -orrore degli orrori- per La Maga delle Spezie, mi sembrava francamente uno spreco: di tempo, di denaro e di quel che resta del sistema nervoso della sottoscritta.
Una volta messo da parte questo libro, però, mi è caduto l'occhio su quello vicino, il cui titolo mi ispirava di più: “ Pane e Acqua di Rose”, recitava, e tanto è stato il fascino esercitato su una bookaholic come me, che l'ho acquistato su due piedi, senza pensarci troppo su, assaporando, per tutto il pomeriggio, la fine della giornata quando, spento il pc e riempita la lavastoviglie, mi sarei finalmente immersa nelle pagine di questo romanzo.
Che, udite udite, è il seguito di Caffè Babilonia.
Siccome non è mia intenzione rovinarmi tutta la reputazione qui sopra, sorvolo sull'arrabbiatura, gli smoccolamenti, le variegate esternazioni sul “come si fa ad essere così deficienti” riferite alla sottoscritta e passo oltre, a quando, esattamente 24 ore dopo, a pc spento e lavatrice caricata, ma con ben altro spirito rispetto alla sera prima, ho preso in mano la tanto decantata opera prima di Marsha Meheran e ho iniziato la lettura.
Ho smesso tre ore dopo, chiudendo il libro sul Pane all'Uvetta della signora Boylan, incerta se controllare la dispensa e mettermi a panificare all'istante, o leggere subito il seguito, per vedere cosa sarebbe successo dopo: perché, a dispetto delle premesse, questo libro mi è piaciuto, ed anche parecchio.
Sia chiaro: è un'opera che ha un sacco di limiti- nella scrittura, che è lontana dal disinvolto equilibrio che ci si aspetta in un romanzo e che, pertanto, dosando male gli ingredienti, rischia di cadere nell'autocompiacimento, da una parte, e in una sterile superficialità, dall'altra; nei ritratti dei personaggi, alcuni dei quai sono talmente prigionieri di stereotipi da far pensare ai corrispondenti “caratteristi” del cinema di una volta; nella selezione dei contenuti, che sono tanti e tutti importanti e che finiscono quindi per non essere adeguatamente approfonditi. Però, è un romanzo che si legge d'un fiato, sorretto da un buon intreccio narrativo di base e condotto con abilità dall'autrice, attraverso un disvelamento progressivo del passato, da una parte e l'interesse per gli sviluppi della storia nel presente, dall'altra : per cui, chiedendosi ora quale sarà il vero motivo della fuga delle protagoniste e ora se riusciranno a vivere felici e contente nel loro Caffè Babilonia, si arriva alla fine quasi senza accorgersene.
Come già detto, non è un capolavoro e, in tutta onestà, credo che avrei finito per relegarlo nell'affollato dimenticatoio dei libri “così e così”, che pullula di titoli che sai di aver letto, ma di cui ricordi poco o nulla, se non fosse per il posto tutto speciale che la cucina occupa in questa storia: il Caffè Babilonia, con le sue ricette che profumano di case che non ci sono più, di famiglie smembrate, di culture rinnegate, di immensi tesori dispersi nella repressione e nell'ignoranza è, prima di tutto, il segno tangibile della volontà di ricominciare- e di ricominciare dalle proprie radici, trovando nell'orgoglio dell'appartenenza ad un mondo violentato e offeso il coraggio della sfida e del riscatto. I piatti serviti nel ristorante, quindi, non sono un semplice elenco di portate, in puro stile menu del giorno, ma rappresentano, semmai, il riaffermare, sempre nuovo, di una tradizione antica, che, se affossata nel sangue di una distruzione totale, rinasce con forza nella sensualità dei suoi profumi, nel rinnovarsi di gesti millenari, nell'invito ad un dialogo che passa attraverso i modi squisiti di una diversità che si svela con garbo e misura e che trova nell'atto del cucinare l'emblema dell'accoglienza e della comunicazione. In questo senso, allora, Caffè Babilonia diventa un libro da non dimenticare, pur con tutti i limiti che lo contraddistinguono: e se anche per voi la cucina è anzitutto un veicolo di emozioni e sentimenti, un legame con un passato che attraverso di essa resta vivo, lo sfondo che meglio potrebbe far da scenario alla vostra vita, allora questo è un libro che vi piacerà, dalla prima pagina all'ultima.
Alla prossima
Alessandra