... che poi, quando leggi, certi libri, te le strappano di bocca, quelle considerazioni a cui hai sempre voluto fare orecchie da mercante, perchè intrise di così tanta invidia da sembrar solo malignità. Perchè non è un mistero che certe case editrici mi piacciano più delle altre- e che la Sellerio sia fra queste, grazie ad una serie di scelte raffinate, mai banali, complessivamente coraggiose, che negli anni me l'hanno resa cara, quasi come un'amica. Mi basta vedere gli inconfondibili dorsi blu delle sue edizioni, per sentirmi meglio, per dire. Ma quando mi imbatto in titoli come questo, fatico a non accodarmi al coro dei maligni di cui sopra, quelli che indicano in Camilleri l'àncora di salvezza di una azienda ormai alla deriva: perchè se mai c'è cosa che mi fa infuriare è l'essere presa in giro- e quando questo avviene per mano di chi stimi e sostieni e difendi, mi infurio, ancora di più.
Hotel Bosforo è un romanzo di Esmahan Aykoll, scrittrice turca che vive a Berlino, a cui il successo del libro ha arriso molta fortuna: tant'è che subito dopo sono usciti altri due titoli, con la stessa protagonista, la stessa ambientazione e, se tanto mi dà tanto, pure la stessa trama, visto che una delle certezze che accompagnano la fine della storia e che fra le varie cose che la signora non sa fare, c'è pure quella di destreggiarsi con i meccanismi del giallo.
E questa è la prima cosa che mi fa arrabbiare: perchè il genere giallo ha delle regole, e scrivere un romanzo giallo è una cosa seria, che richiede capacità di scrittura superiori alla media, oltre che una piena padronanza delle dinamiche sottese allo sviluppo della trama. Non bastano un morto, un detective e un assassino, insomma: in mezzo, ci deve essere un filo rosso, che va tessuto con acume, maestria, abilità, i requisiti fondamentali di chi sa di affrontare un genere che ha nella sfida al lettore una componente imprescindibile e irrinunciabile. Il sottile piacere che pervade un lettore di Gialli, dalla prima all'ultima pagina, è proprio il brivido della sfida: che va condotta con lealtà, intelligenza, acume, secondo una prospettiva che è la fusione di molti punti di vista- quello dell'assassino, quello del detective e quello dello scrittore: perchè, non dimentichiamocelo, "giallo" è un aggettivo: è "romanzo", il sostantivo a cui si appone.
Lo stesso vale per l'ambientazione, che è tutto, fuorchè un elemento accessorio. Ci sono storie che non possono essere scisse dal loro ambiente: che cosa sarebbe Montalbano senza Vigata, per dire, o Miss Marple senza Saint Mary Mead, o Wallander fuori dalla Svezia, per non parlare della casa di arenaria sulla 34esima o del 221b di Baker Street- ed è meglio che mi fermi, prima di arrivare al balcone di Giulietta e alla casetta di marzapane di Hansel e Gretel: che comunque son tutti luoghi così connotati e connotanti che è immaginare questi personaggi al di fuori di queste determinate cornici è praticamente impossibile.
Questo vale a maggior ragione quando si scelgno come scenari luoghi di per sè evocativi di fascino e di magia: Istanbul non è Pentema, per dire. (Pentema è pittoresco paesino di poche anime, arroccato su un monte dell'entroterra genovese, giusto per quei due o tre che magari non lo sanno). E fare della protagonista una libraia, per un prodotto che ha come clienti dei lettori, ha un impatto maggiore di qualsiasi altra professione. "Un romanzo giallo ambientato a Istanbul che ha come protagonista una giovane donna, di professione libraia"- questo è il messaggio che emana, forte e chiaro, dalla terza di copertina e da tutte le recensioni in giro sul web e che, dai miei neuroni, è stato immediatamente codificato nell' unico imperativo categorico che con me abbia successo: "Comprami", diceva quel romanzo- ed io ho obbedito.
Viola Valentino batte Emmanuel Kant, 1-0
Dall'incavolatura annunciata, presumo che sia facilmente intuibile che nessuna di queste promesse sia stata soddisfatta da questo romanzo. Che non sia un giallo, già l'ho detto. Che Istanbul sia un accessorio, lo aggiungo ora: in certi momenti, mi sembrava pure di leggere la Lonely Planet (e io odio pure quelle, detto tutto). Peggio va con la libreria, la cui gestione viene affidata ad una povera studentessa che passava di lì, non appena la protagonista si rende conto che la polizia turca non può fare a meno del suo acume (e che lei non può fare a meno di approfondire la conoscenza con l'ispettore, in rigorosi termini biblici), grosso modo a pagina tre.
Il che significa che, grosso modo da pagina tre, la protagonista ti stia sui maroni, in un crescendo di franca antipatia che monta a mano a mano che la storia va avanti, in un susseguirsi di dialoghi piatti, di descrizioni da guida turistica per fighetti, di scene hard che ti fanno rimpiangere di non aver speso grosso modo la stessa cifra per comprarti le sfumature di grigio, non fosse altro che per condividere con la portinaia gli sguardi di rinnovato interesse del portalettere, del portamulte e dei vicini tutti.
Il colpo mortale- e qui son seria- lo dà il finale. Non già perchè sia una sorpresa- la trama sfugge di mano alla sua autrice sin dai subito- quanto perchè il tema affrontato è l'argomento più delicato, più devastante, più traumatico che possa essere immaginato. Sceglierlo come fulcro di una storia impone come sommamente doveroso un rispetto capillare, ancor prima che assoluto, capace di sintonizzarsi in modo pieno su tutte le infinite corde che danno voce alla profondità del dolore di un'anima, ogni volta che è straziata da simili drammi
Trasformare in un accessorio anche questa tematica è cosa che va oltre: oltre il buon gusto, oltre la decenza, oltre la dignità. E oltre la benevolenza che le frequentazioni antiche ti spingono a riservare a chi, nel bene e nel male, ritieni un amico, sia esso il tuo vecchio compagno di banco o la casa editrice che ha rappresentato il porto sicuro delle letture dei tuoi ultimi vent'anni.
Stavolta, no, Sellerio: proprio no.