giovedì 8 settembre 2011

La Morte del Papa: una boiata pazzesca

Il Papa è, ovviamente, Albino Luciani, il Patriarca di Venezia assiso al soglio ponitificio nel  settembre del 1978 e rimasto in carica per soli trentatrè giorni, stroncato da una morte improvvisa che ha dato la stura ad una ridda di ipotesi più o meno fantasiose, tutte accomunate dal palese sospetto di un omicidio. D'altronde, gli scenari politici dell'Italia di quegli anni, con gli intrighi della P2 a sovrapporsi agli ultimi strascichi del terrorismo, scritti dalle mani sporche di una politica invischiata in losche connivenze, di cose nostre e altrui, servivano sul piatto d'argento ipotesi che, in altri contesti, sarebbero sembrate farneticazioni campate in aria: e tanto è bastato per alimentare un filone letterario di tipo complottista, a cui appartiene di diritto questo libro. Che è una delle robe più insulse che io abbia mai letto.

Sia chiaro: di fronte ad un titolo del genere, che non lascia dubbi sull'argomento trattato, e ad una copertina che pullula di recensioni di testate di altrettanto indubbio spessore critico ("Gente", su tutte), non posso che prendermela con me medesima, per aver ceduto ad un sì incauto acquisto. Il fatto è che fino ad oggi non avevo ancora preso un bidone dalla Neri Pozza e, chissà perchè, mi sono illusa che a dispetto delle previsioni, la casa editrice fosse andata nuovamente a segno. Invece, mi sono sbagliata-e pure di grosso.

Quel che è peggio, però, è che ho perseverato nell'errore. Avrei dovuto smettere all'inizio del secondo capitolo, quando ormai era chiaro che la narrazione non si sarebbe distaccata dai toni piatti e sciatti con cui era iniziata, al confronto dei quali la mia lista della spesa sembrava un film di Dario Argento; oppure poco dopo, di fronte all'infoltirsi di un papocchio di personaggi talmente grotteschi nella loro caricaturalità da rasentare il ridicolo, descritti con annotazioni marginali, più consone al canovaccio di uno sceneggiatore che ad un romanziere; oppure quando si scopre che la molla che innesta una serie indicibile di altrettanto indicibili efferratezze è l'urgenza di rientrare in possesso di un documento segretissimo, quale la lista degli appartenenti alla P2, divulgata urbi et orbi trent'anni fa e da allora talmente consunta dal'uso che non se la filerebbe neppure l'ultimo dei seguaci di Assange. Insomma, a farla breve, ogni pagina, ogni riga, ogni parola mi avrebbero fornito decine di motivi per desistere da una delle letture più imbarazzanti in cui mi sia imbattuta nella mia intensa vita di lettore, al confronto della quale Il Codice da Vinci si erge maestoso, come un capolavoro inimitabile e irraggiungibile.
Invece, sono andata avanti fino alla fine, esattamente come succede con i libri gialli di terz'ultima categoria, quando decidi di dare un senso alle due ore buttate al vento per scoprire se almeno hai indovinato l'assassino. In questo caso, però, il meccanismo che è scattato è stato ancora ppiù perverso: perchè la sfida con l'autore era tutta tesa a vedere fin dove fossero capaci di arrivare le sue trovate. Lungi da me la volontà di privarvi delle sorprese, ma qualsiasi ipotesi vi possa venire in mente, anche la più desolante o la più becera (anzi: soprattutto la più desolante e la più becera) state pur certi che la ritroverete poche pagine dopo, in un  crescendo (?) di invenzioni assurde e incapaci di reggere alla forza di qualsivoglia critica storica, per quanto lieve e superficiale.

In cauda venenum: azzarderei una malcelata ispirazione dal libro inchiesta di Yallop, In Nome di Dio, vista la pressochè totale aderenza delle tesi e del materiale. Con la non lieve differenza che fra le due opere intercorrono venticinque anni e un certo Dan Brown, ai cui demeriti si aggiunge quello di aver creato un sottobosco di suoi emuli, convinti che basti prendere una penna in mano per scrivere un romanzo e che basti gridare al complotto per scrivere un romanzo storico. In più, nel caso specifico, Rocha non ha dalla sua neppure la novità della materia, visto che si limita a mescolare una serie di eventi a cui non aggiunge nulla del poco o tanto che già si sappia. Tanto che, alla fine, l'unico vero interrogativo che soleva la lettura di questo libro è se ci si trovi di fronte ad un polpettone storico o a una minestra riscaldata: vale la pena di sobbarcarsi tre ore di lettura per azzardare una risposta? io dico proprio di no...
Alla prossima
Ale

giovedì 18 agosto 2011

Il linguaggio segreto dei fiori- La briscola in cinque- Mama tandoori...


Di quante rece avevo detto di essere rimasta indietro, qualche settimana fa? Venti? Venticinque? Bene, aggiungetecene una decina e potrete avere una vaga idea dello sgomento che mi prende ogni volta che mi accingo a scrivere di libri su questo blog. Fra l'altro, la prima persona a cui tornerebbe utile questo lavoro sono io: perchè leggo con una tale voracità che spesso e volentieri i testi scivolano lungo quel che resta della mia memoria, col risultato che, a volte, non mi ricordo nemmeno i titoli di ciò che ho letto, figuriamoci i contenuti e le impressioni. Quindi, non stupisce che nella lista dei buoni propositi di settembre ai primi posti ci sia l'imperativo categorico di segnare almeno due righe, ogni volta che leggo qualcosa- tanto meglio se sul blog, dove ho almeno un motore di ricerca ad occuparsi di trovare le cose. Epperò, se non faccio almeno un tentativo di smaltire qualche arretrato non mi dò pace: ragion per cui, comincio subito con un po' di rece ultraveloci delle ultime letture di questi mesi, partendo dai titoli che, nel bene e nel male, ricordo di più.



Diffenbaugh, Vanessa Il linguaggio segreto dei fiori: ok, sarò sincera: di questo libro non avevo scritto niente, qui sopra, ma lo avevo caldamente consigliato ai lettori della nius, “a caldo”, ancora sotto gli effetti dell'emozione suscitata da un romanzo che non avrei mai comprato, se non fosse stato per il prezzo stracciato a cui veniva venduto (cosa si diceva, ier, a proposito degli sconti?). Il motivo è presto detto: da anni diffido delle fanfare editoriali e l'unico modo per tirare dritto di fronte ad uno scaffale pieno di libri è una fascetta gialla piena di zeri e punti esclamativi sulla copertina di un romanzo. In più, da quel poco che avevo letto in giro, mi ero fatta l'idea che si trattasse di un mix fra La Solitudine dei Numeri Primi e la Maga delle Spezie, il che, nella mia classifica personale, è l'equivalente del “fra il marcio e la muffa”, tanto per ricorrere alla solita efficacia delle metafore. Invece, mi sono sbagliata-e pure alla stragrande. Ho letto una storia avvincente, raccontata con la sensibilità che solo chi ha vissuto determinate esperienze può avere, senza per questo venir meno alle esigenze che un romanzo impone, dalla caratterizzazione dei personaggi agli espedienti narrativi. Anche per questo motivo il tema trattato- il disagio dei bambini abbandonati – non ha l'impatto devastante che potrebbe avere se affidato ad una penna meno sensibile e meno accorta: la narrazione procede parallela, con un presente che, poco per volta, riaggiusta i cocci del passato, senza nulla concedere al sentimentalismo (fastidioso sempre, al limite del pornografico se riguarda i bambini). Va da sé che ci siano delle pecche, a cominciare dalla irreale facilità con cui tutto va a posto e per finire con uno stile non sempre adeguato alla materia trattata: ma, una volta arrivati alla fine del romanzo, si è così commossi e felici che si perdona tutto.



Marco Malvaldi. La Briscola in cinque: e si torna a parlar bene di Malvaldi, dopo le meritatissime lodi di Odore di Chiuso, grazie al quale ho scoperto un autore che ignoravo, fino a poco tempo fa. Come sia stato possibile, a me che sono una giallista della prima ora e ispeziono tutti i titoli della Sellerio, è cosa che mi sfugge, ma a cui ho intenzione di riparare, come dimostra la scelta di questo titolo, letto e divorato in un fiat. Dovrebbe essere l'opera prima dello scrittore e di sicuro è la prima della (finora) trilogia del Bar Lume, tre romanzi che hanno come protagonisiti un barista tanto svelto di mente quanto parco di parole e quattro pensionati, che trascorrono le loro giornate giocando a briscola ai tavolini del bar. Stavolta, a mettere in moto l'azione, è la scoperta del cadavere di una ragazza in un cassonetto dell'immondizia poco distante: il barista è casualmente coinvolto nell'indagine e finirà per trovarsi suo malgrado a vestire i panni dell'investigatore, sullo sfondo di una provincia che parla toscano e con i vecchietti a movimentare la narrazione, garantendo momenti di assoluta comicità e un paio d'ore di gradevolezza. I capolavori  del giallo sono un'altra cosa, come pure i pastiche letterari: ma Malvaldi ha dalla sua l'originalità dell'idea e una buona padronanza dello stile, che si rivela specialmente nella gestione pressochè perfetta dei tempi comici: per cui, alla fine, non solo si legge ocn piacere, ma si ride pure. Il che, a parer mio, basta e avanza....

Erns Van Der Kwast, Mama Tandoori: "il ritratto tragicomico di una madre che, grazie al cielo, non è la tua" è stata la frase che mi ha indotto a prendere questo libro dallo scaffale della libreria e a metterlo nel carrello. Per poi pentirmi, pochi giorni dopo, quando ho iniziato a leggerlo. E' la storia- presumo autobiografica- di una donna indiana, la madre dello scrivente, che venuta in olanda come infermiera sposa un giovane medico di cui non è innamorata e con cui mette su famiglia. Dei tre figli, il primogenito ha un grave ritardo mentale e da quando entra in scena questo personaggio, tutta la trama è incentrata sul rapporto della donna con questo ragazzo. A differenza di quanto si potrebbe immaginare, però, l'autore sceglie la strada del comico per raccontarlo- commettendo un atto di presunzione bell'ebuono: perchè, a differenza di Malvaldi, Van Der Kwast non ha la piena padronanza delle tecniche narrative legate ad un genere così difficile come questo. E quindi, finisce per cadere nel patetico, in una generale impressione di fastidio. Anche perchè, in tutta onestà, la materia non si presta al genere prescelto, proprio per niente: sarebbe forse stato meglio percorrere la via più sottile dell'umorismo, con la riflessione a frenare il riso, oppure quellapiù sferzante della tragicommedia, cinica ed impietosa. Ma così non è stato e il risultato è un libro con troppe forzature per poter diventare una lettura piacevole. Evitabilissimo
A domani (?) con altri titoli
ale

venerdì 25 marzo 2011

Dopo Lunga e Penosa Malattia, Andrea Vitali

Ora, com'è che in questo periodo mi metta a leggere un libro con questo titolo, è fatto del tutto inspiegabile, che al momento mi sfugge. Di sicuro, però, c'entra l'autore, visto che Vitali è da anni sinonimo di evasione "alta", se mi perdonate il termine: una prosa garbata, un'ironia pungente ma mai amara, un umorismo felice e- su tutti- uno sguardo gentile e indulgente sulle cose del mondo capace di riconciliarti all'istante con la vita, anche nei suoi aspetti peggiori. E siccome in questi mesi ne ho bisogno, di viatici e di riconciliazioni, mi sono rivolta speranzosa a questo romanzo, non propriamente una novità (è del 2008), ma fino ad oggi mai finito sugli scaffali della mia libreria. Epperò, è stata una delusione. A tutto tondo, di quelle senza se e senza ma, resa ancora più pungente  dall'affetto che son solita tributare agli autori che mi piacciono e che leggo con regolarità. Ma, davvero, non riesco a trovare un appiglio a cui aggrapparmi per imbastire uno straccio di difesa a questo romanzo, così inconsistente nella trama e così monocorde nella scrittura da farmi venire più volte il sospetto che non fosse il Vitali che amo, il vero autore, ma un fratello, un omonimo o il suo editore, in cerca di un titolo con cui chiudere il catalogo in bellezza.
E' la storia di un medico, il dottor Lovati, minato nel fisico da una grave forma di angina, che si trova per caso ad indagare sulla morte di un amico, il notaio del paese, stroncato all'improvviso da un cuore vecchio e malandato. La "lunga e penosa malattia" che dà il titolo al romanzo è la prima delle molte note stonate che suscitano nel dottore un interesse ben diverso da quello professionale, spingendolo a far domande e a richiedere risposte destinate giocoforza a portare alla luce i tanti scheletri che popolano gli armadi della tranquilla cittadina sul lago che fa da scenario alla vicenda. L'idea, in sè, potrebbe andar bene, così come anche la scelta di sviluppare la narrazione in toni apertamente crepuscolari: la malattia che consuma il medico diventa la cifra di una stanchezza del vivere, che rimbomba nelle nebbie dell'autunno novembrino, nel calare delle tenebre che soffocano il giorno, nel freddo che gela le ossa: la morte è la vera protagonista del libro, sia quando la si cita apertamente, nel ripetersi di riti consueti,  sia quando la si evoca, nella grigia monocromia del paesaggio, nella evanescenza di una vita il cui significato sfuma, a mano a mano che ci si avvicina alla fine di essa.
Fin qui, però, tutto bene.  Bene l'idea, bene la prospettiva, bene- benissimo- la scrittura. Volendo (ma proprio  volendo) si sarebbe potuto frantumare la monotonia di una narrazione volutamente sottotono con qualche guizzo alla Vitali: che so,  una "macchietta", un tocco di colore in questa banda desolatamente ingrigita, per tener sempre desta l'attenzione del lettore. Così non è stato- e pazienza,  me ne son fatta una ragione. Anche perchè la speranza non era tanto uno scossone allo stile narrativo quanto alla trama: che invece, ahimè, non c'è stato.
E qui si torna al solito problema già più volte dibattutto su queste pagine, dell'identità del genere lettarario- e nella fattispecie dell'identità del genere del giallo. Che è quanto di più dettagliato e definito esista nella storia e nella teoria della letteratura. Se è vero che noir si nasce, è ancora più vero che "giallisti si diventa": nel senso che a presiedere la stesura di un romanzo giallo esistono regole ben definite e ben canonizzate che, se seguite tutte e tutte insieme possono contribuire a definire in modo corretto l'ossatura di una trama di questo tipo. Va da sè che il resto lo faccia la scrittura, la profondità di analisi, la capacità di nascondere senza dissimulare e la sicurezza del piglio con cui si conduce la sfida al lettore. Ma le regole son quelle- e guai a sgarrare. Chi lo fa, si trova ben presto a dover tappare falle, con l'affanno di chi sa che per una che si ripara, ne spunteranno altre dieci e tutte più grandi e difficili da arginare. Esattamente come succede a questo romanzo che, ad un tratto, sfugge dalla direzione in cui si era incanalato, diventando del tutto inconsistente. Il plot fa acqua da tutte le parti e la stessa scrittura, non più sostenuta dalla credibilità di una trama, si trasforma in un mero esercizio di stile.
Con tutto ciò, non mi dispero: Vitali è troppo bravo per poter essere mal giudicato per una prova non riuscita e gli devo tante e tali esplosioni di soddisfazione e di gioia, ad ogni lettura di un suo romanzo, che va bene così: a patto che torni alla materia che gli è più cara e al genere per cui ha rivelato negli anni un vero e proprio talento. Anche perchè di giallisti bravi ne abbiamo in abbondanza, mentre di narratori veri, purtroppo, no. E il solo pensare che Vitali possa lasciare la via vecchia per sperimentazioni che non sono nelle sue corde è roba che si tollera una volta- e mai più.

ciao
Ale
Prox rece: L'imbattibile Walzer

lunedì 17 gennaio 2011

Le Braci- Sandor Marai

Le Braci è un libro immenso.
Che Sandor Marai scrive col bisturi, anzichè con la penna.
Sul momento, il lettore non se ne accorge, preso com'è prima dalla tensione di una narrazione magistrale, con un dosaggio dei tempi sicuro, calibrato e sapiente, e poi dall'atmosfera decadente e voluttuosa che si insinua fra le pagine del libro, nel particolare di un oggetto, nell'istantanea di un volto, nell'indugio su un rapido gesto, una piccola mania. Ma poi,  quando si arriva alla fine, e  la tensione si allenta e la concentrazione si distende , è allora che ci si rende conto che ormai è troppo tardi per opporre resistenza alla forza di una scrittura e di una storia di rara potenza
Le Braci è l'impitoso svelamento delle illusioni.che ci aiutano a sopportare la vita.  E' illusoria l'amicizia che sembra essere il tema portante del libro, è illusorio il sistema di valori in cui i protagonisti sono cresciuti, sono illusorie le maschere che noi indossiamo per nasconderci a noi stessi, prima ancora che agli altri. Ed è illusoria anche la stessa struttura della narrazione, tutta giocata su un macroscopico equivoco, per cui si crede che  la storia sia  interamente legata ad un disvelamento finale: due amici che hanno un conto in sospeso da 41 anni e che ora, finalmente, sono arrivati al momento della verità. Lo dice l'autore, sin dall'inizio: quarantun anni e quarantatre giorni, tutti vissuti nell'attesa di questo momento. E tanto basta, perchè i sensi del lettore stiano all'erta, concentrati in quello che dovrebbe essere il punto cruciale della narrazione, il momento tanto atteso, verso cui tutto concorre.
Da lì  in poi, è solo tensione allo stato puro, in un climax perfetto, in cui Marai ci guida con la maestria della guida esperta, consumata, che si segue con fiducia crescente, ad ogni pagina, convinti che ci porterà dove ci ha promesso. E mentre la tensione cresce, si restringono le prospettive: degli spazi fisici, anzitutto, passando dalla maestosità di una natura che, nei suoi silenzi, sembra condividere il peso di questo segreto, ad una dimensione sempre più claustrofobica, con l'azione che si concentra in due sole stanze del castello, e di quelli della memoria e dell'introspezione che si assottigliano fino a diventare acuti, acuminati, taglienti. Un bisturi, appunto, con cui Marai seziona tutte le profondità dell'animo umano, in una lucida  impietosa e quasi parossisitica disamina del comportamento umano e delle ragioni che lo spingono ad agire.E si scopre che la meta verso cui si tende è un'altra, tutta diversa da quella promessa. Non la soluzione di un mistero, ma la conferma di un Mistero, molto più ampio e complesso ed oscuro, quale è appunto il senso della nostra vita.
Quello che sarebbe dovuto essere un chiarimento ed un confronto aspettato per una vita si risolve in un lungo monologo di Heinrik, l'amico tradito, mentre  le scarne battute del traditore segnano solo delle pause, o  meglio delle desolanti adesioni alle conclusioni a cui sono approdati quarantun anni di attesa, trascorsi nell'anelito ad una verità che aspira ad una vendetta: e cioè, che è stato tutto inutile.
E' stato inutile rinunciare a vivere, come hanno fatto entrambi, seppure in modi antitetici, l'uno cercando la fuga  nei tropici, l'altro rinchiudendosi in un'ala del castello, sacrificando se stessi alla passione: è stato inutile non perdonare, non rinunciare all'orgoglio, non deporre la presunzione, in nome di valori che non esistono più e che non lasciano posto a null'altro, se non alla consapevolezza amara che l'uomo comprende il mondo un po' alla volta e poi muore. E che di quella passione per cui ha amato, odiato, sfidato la vita e la morte e che costituisce l'essenza stessa della sua vita e qi quella di tutti non restano che le braci di un fuoco ormai spento.
Alessandra
Prossima rece: Catherine Dunne, Se stasera son qui

lunedì 10 gennaio 2011

Mia Suocera Beve- D. De Silva

Giuro che non avrei voluto iniziare le rece dell'anno con una mezza stroncatura. Meno che mai su questo romanzo e su questo autore che, per quanto non notissimo è molto amato dai suoi lettori, molti dei quali transitano anche da qui. E meno che mai quando, dopo le prime trenta righe del libro, avevo deciso che da ora in poi la mia vita sarebbe cambiata e che avrebbe avuto come unico scopo quello di incontrare l'unico uomo al mondo che la pensa e soprattutto la scrive esattamente come te.  E di dichiarargli amore eterno, naturalmente. Non pensiate che scherzi, perchè ho i testimoni- nella fattispecie gli avventori del solito bar degli aperitivi dove affogo negli Aperol soda e nelle pizzette del giorno prima quel che resta del mio fegato e del mio tempo, fra un impegno e l'altro della creatura. Per inciso, sbevazzare con un titolo del genere sul tavolino mi sembrava un'occasione più unica che rara e non me la sarei lasciata scappare per nessuna ragione al mondo, anche se avessi avuto fra le mani una schifezza: e così, ho ordinato, mi sono messa comoda e ho iniziato a leggere. Tempo due minuti ed ero lì che declamavo il primo paragrafo a mio marito, nella (assurda) convinzione che se mai avessi scritto un romanzo, nella mia vita, lo avrei scritto così: stesso ritmo, stesso punto di vista, stesso sguardo distanziato quel tanto che basta per permettersi un' ironia che spunta le sue armi nella compassione per le miserie dell'umanità e nella  rassegnata malinconia  per le proprie. E la trama, poi, la trama: un condensato di genialità, surrealismo e contemporaneità, una galleria di vizi e virtù del nostro tempo (più vizi che virtù), raccontati da una prospettiva straniata e straniante e per questo più dannatamente impietosa nella sua denuncia, senza essere mai saccente, mai retorica, mai pedante. Il reality show con le telecamere del supermercato a filmare il disperato tentativo di vendetta di una vittima della camorra è il colpo di genio che abbatte le barriere fra la storia ed il lettore, nel nome della condivisione quotidiana di esperienze comuni, dal Gomorra al Grande Fratello, in una perfetta fusione nel segno della tragicommedia, del riso amaro, di un umorismo quasi pirandelliano, che trova nella simpatia, intesa nell'accezione più vera del termine, l'origine ed il punto di arrivo
Lascio per ultimo il protagonista del romanzo, quell'avvocato Malinconico il cui cognome è il presagio della sua esistenza e il cui sguardo è la chiave di volta per comprendere la grandezza del suo creatore:"un avvocato semi disoccupato, semi divorziato, semi felice", è il biglietto da visita della quarta di copertina, che mette l'accento sull'eterna incompiutezza di un personaggio che ha nella indeterminazione la cifra connotativa della sua natura. Il che rende fino a un certo punto, a parer mio: perchè se fosse toccato a me, di descrivere l'avvocato Malinconico, avrei detto semplicemente che è Napoletano. Perchè io ci sento Napoli, in questo romanzo, dalla prima all'ultima virgola- e la sento soprattutto nello sguardo del narratore, sempre venato da quella saggia e benevola comprensione per le magagne del mondo, alle quali siamo esposti tutti, dalle quali nessuno è immune- e pazienza se non siamo perfetti e se le cose non vanno come dovrebbero. Una mano tesa, un occhio da cui è assente ogni traccia di giudizio, l'inconfondibile tratto signorile che ti fa sentir subito a casa, fra amici, perfettamente a tuo agio.
E allora, cosa c'è che non va?
E' la sua bravura, che non va. O meglio: l'autocompiacimento che si avverte nel momento stesso in cui l'esaltazione per il racconto scema e alla risata subentra il sorriso, sempre meno spontaneo, sempre più tirato, portandoti dritta dritta alla noia. Un po' come era successo con questo libro qui- con la non trascurabile differenza che De Silva è scrittore infinitamente più bravo e completo. E però, alla fine, il risultato è lo stesso: tante belle parole- e la tensione narrativa a farsi fottere, insieme all'illusone di avere fra le mani un gran bel libro. E quella, a ben pensarci, è ciò che brucia di più. 
Buona serata
Ale

Prossima Rece: Sandor Marai, Le Braci

venerdì 7 gennaio 2011

Paul Collins- Al Paese dei Libri

Un salotto a due voci più una- la mia, quella di Mario e quella di Emmetì, che, ligia alle consegne, ha lasciato il suo commento nel post di presentazione di Al Paese dei Libri di Paul Collins: ve li leggete di fila, qui sotto, in attesa di tutti gli altri.
Ben ritrovati
Ale

Confesso: per i tre quarti del libro, non riuscivo a evitare di ripetermi che avevo per le mani qualcosa di delizioso. Delizioso, delizioso, assolutamente delizioso. Davvero, non trovavo un aggettivo più adatto a definire la natura di un romanzo come questo, che non chiedeva nient'altro, se non di essere assaporato, gustatao goduto fino all'ultimo, come si conviene ad un'opera scritta da chi sa scrivere e destinata a chi ama leggere, in modo estremo, incondizionato, assoluto. Tanto che tuttora, a lettura conclusa, non saprei neppure in quale genere incasellare questo libro, che ha come unico cardine non tanto una storia, quanto la eccelsa bravura del suo autore. Perchè è innegabile che Paul Collins sia uno scrittore di razza: la sua capacità di tenerti incollato alla parola, prima ancora che alla pagina, alla struttura della frase, alla costruzione della battuta ad effetto è così dirompente da travolgere tutto il resto, anche gli elementi fondanti della narrazione. Non a caso, questo è uno dei pochissimi libri che mi ha concesso il priivilegio di una lettura smozzicata, e pur sempre emozionante: nessuna paura di perdere il filo, nessun bisogno di carburare e di entrare in partita: bastano due righe di Paul Collins e il coinvolgimento è assicurato.
E però, c'è un limite, che probabilmente serpeggia sin dalle prime pagine ma che si manifesta in tutta la sua evidenza a tre quarti dell'opera, quando cioè si percepisce l'inconsistenza della storia. E' come se l'autore fosse rimasto prigioniero dei suoi meccanismi e fosse caduto nella sua stessa trappola, restando impantanato nella palude sterile della sua bravura. E così, alla fine, ci si inceppa, ci si annoia, ci si disinnamora. E al posto delle delizie, resta solo il rimpianto di un'occasione colta a metà. Peccato
Alessandra

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Premetto che faccio una certa fatica a leggere libri non scelti direttamente da me non da meno però sono un entusiasta sostenitore del caffè-libreria condotto da Alessandra di MT proprio per l'insita caratteristica che ha di farmi aprire a generi letterari e tematiche che non incontrano in prima battuta il mio consenso. Questo non è un punto a sfavore anzi la totale assenza di aspettative il più delle volte mi ha dimostrato quanto è sempre necessario confrontarsi con altro rifuggendo la 'sicura' solidità di autori a me certamente più cari.


Questo per dirvi in soldoni che ero partito davvero con le migliori intenzioni eppure Paul Collins non convince affatto.

Sia ben chiaro parliamo di un signor libro, scritto con stile e con forma accattivante ma al quale forse manca quell'ingrediente cardine che in modo naturale seleziona le pubblicazioni da dimenticatoio con quelle che invece contribuiscono a formarci (esteticamente, moralmente, ...) o anche solo a divertirci: la storia.

E' un libro senza spina dorsale. Hay-on-Wye è l'ennesima Disneyland da finanza creativa presa in prestito per farne il fulcro logistico (l'autore lì ha abitato davvero) di una serie di considerazioni "carine" ed a tratti anche argute ma che non bastano a sollevare le sorti di 216 pagine di stallo creativo.


In un articolo di Michele Serra o di Vittorio Zucconi di 20 righe troverete un maggiore quantitativo di spunti capaci di farvi sorridere mettendo in moto il cervello. Non a caso ho citato Zucconi che ha "scritto" l'america come nemmeno gli americani hanno saputo fare ma questa è una altra storia.


"E l'amore per la lettura invece dove lo metti?" Ecco, se per amore della lettura si intende quella di Collins e cioè prendere testi sorpassati per imparare dal "confronto" allora siamo miseramente solo un gradino sopra la rubrica "Strano ma vero" della Settimana Enigmistica. Un pò di anni fà il quotidiano il Mattino di Napoli ha pubblicato per qualche mese insieme al giornale le pagine complete dei primi numeri stampati nel 1892. Quelle (mie) letture di allora sono state caratterizzate dalla medesima curiosità che manifesta Collins nel suo continuo spulciare testi 'andati' che per quanto possa essere davvero interessante non va oltre una serie di constatazioni (per quanto intelligenti le sue e decisamente più scemotte le mie) francamente limitate.


Tralasciamo poi i punti per i quali si intuisce innegabilmente che l'amore per i libri altro non è che la ricerca dell'edizione rara. Qui siamo poco oltre il collezionista di bottiglie di vino del secolo precedente. Ci si affida all'odore delle muffe e certamente il fatto che si tratta di libri non eleva lo status di quello che in fondo resta solo un cercatore di rarità che rifugge dal presente per non scontrarsi con la realtà che ha ben altro spessore.


Non a caso la contemporaneità, letteraria e non, nel libro sembra quasi non esistere.


Per l'autore Hay-on-Wye è una piccola Las Vegas dell'anima mentre per occhi leggermente più distaccati è solo un insieme di luci al neon sfavillanti nel deserto economico dell'Inghilterra di inizio milennio, da plauso per inventiva ma non certo per altro.

"Al paese dei libri" non vale assolutamente il suo prezzo di copertina...ma come ben dice lo stesso autore non facilmente ad Hay-on-Wye si fanno affari! :)
Mario


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Molto a posteriori, lo so, ma è andata così, la mia estate...Questo libro mi è piaciuto per lo stile (giornalistico, direi..) ; quanto alla "storia" mah... oscillo tra un discreto entusiasmo ed una sensazione di occasione mancata .Altrettanto bibliofaga della nostra Raravis, venderei (quasi) tutto per vivere una simile avventura : sprofondare fisicamente in stanze piene di libri; aspirarne l'odore polberoso e vissuto.... Mi aspettavo di più, da uno che getta il cuore oltre l ostacolo e - seppur carico di gravami economici - coraggiosamente varca un oceano (anche mentale) e si tuffa nel più old dei vecchi villaggi inglesi. Tant'è che poi torna indietro, liquidando abbastanza frettolosamente - è quel che ho provato io, verso la fine del libro -un'esperienza più emotiva che vera, benché (e comunque) unica.
emmetidì