Ok, faccio outing: fino a pochi giorni fa, non avevo mai letto niente di Ammanniti. Non che la cosa mi abbia lasciato indifferente, tutt'altro: fra i miei amici, non ce n'è uno che si perda l'ultima sua uscita, tutti trovano Io non ho paura un capolavoro assoluto, c'è pure il cultore che cita a memoria "ti prendo e ti porto via" , il tutto con grande disagio da parte mia, visto che vengo giocoforza tagliata fuori dai loro discorsi. Tuttavia, per quanto mi sia ripromessa, ad ogni giro in libreria, di leggere almeno un romanzo di questo autore, non l'ho mai fatto-almeno fino a questa volta, complice un regalo del libraio che, senza tanti giri di parole, ha infilato una copia di "Che la festa cominci" nelle mie borse della spesa.
Mio marito lo ha letto per primo e, da fine critico letterario quale è, lo ha definito una sonora boiata. Il che, di solito, corrisponde ad un giudizio entusiastico da parte mia. Cosa che si è puntualmente verificata, fino alla prima metà. Dopodichè, il diluvio.
Ma andiamo con ordine
Il romanzo è diviso in tre parti, che fungono da introduzione, prologo ed epilogo, secondo la migliore tradizione letteraria. Tanto la trama quanto la narrazione procedono su binari paralleli: da una parte, c'è un gruppo di borgatari frustrati ed inetti, che hanno trovato in un satanismo di periferia lo sfogo alle loro insoddisfazioni; dall'altra, lo scrittore di successo, che succhia le ultime gocce di una popolarità sempre più esangue, legata ad un unico libro fortunato - il best seller- e ad un programma televisivo che ne ha consacrato l'immagine di intellettuale bello, cattivo e di sinistra. A far da scenario a questi personaggi, troviamo due sfondi adeguati, che fanno risaltare in modo impietoso le loro caratteristiche - il desiderio di affrancarsi da una vita grigia ed umiliante con un gesto eroico, per Saverio Moneta, la brama di ritrovare i palcoscenici che gli competono per Francesco Ciba, sfruttando ogni possibile trucco mediatico.
Fin qui, come dicevo, tutto bene, anzi: tutto benissimo. Ammaniti ha una penna felicissima, una notevole padronanza dei tempi e dei dialoghi, uno sguardo acuto e senza pietà, sorretto da uno stile asciutto, capace di far ridere e riflettere nello stesso tempo.
I problemi cominciano invece con la seconda parte, che è il punto di convergenza della narrazione, dove i protagonisti si incontrano e dove dovrebbe svolgersi il momento clou dell'azione, vale a dire l'uccisione della pop star colpevole di aver ripudiato il satanismo per convertirsi ala religione cristiana. Lo scenario è Villa Ada, acquistata dal losco arricchito di turno, che inaugura la sua nuova residenza con una festa che, nelle sue intenzioni, deve essere quanto di più spettacolare si sia mai visto, l'atto finale di un riscatto sociale che sa di vendetta e di tronfia vanità. Qualcosa va storto e l'evento si trasforma in una bolgia infernale - quasi nel senso letterale del termine- dove violenza, splatter, horror e pulp si susseguono incessantemente, fino al collasso della catastrofe finale.
Le intenzioni dell'autore, a questo punto, sono fin troppo smaccate: la sua satira dei vizi della nostra società dovrebbe assumere le forme deliranti del surrealismo, in una sorta di traduzione letteraria dei quadri di Hieronymus Bosch, dalla fantasia allegorica ed inquietante. Ma qui Ammaniti pecca di hybris, rivelandosi del tutto incapace di padroneggiare la materia: il surreale scade nell'irreale e, da qui, nel fine a se stesso, nello sconclusionato e, infine, nella noia.
E' un vero peccato, perchè l'idea di partenza è quasi geniale e i personaggi riscattano la loro immagine stereotipata rappresentando una galleria completa dei molti vizi e delle poche virtù della società odierna. Però manca la zampata finale, nonostante le occasioni per entrare a gamba tesa siano molte ed anche ben congegnate. Il che svilisce anche la sorpresa dell'epilogo, che sfuma in un romanzo abbozzato, irrisolto, irresoluto: insomma, un'occasione mancata
alla prossima
ale
Mio marito lo ha letto per primo e, da fine critico letterario quale è, lo ha definito una sonora boiata. Il che, di solito, corrisponde ad un giudizio entusiastico da parte mia. Cosa che si è puntualmente verificata, fino alla prima metà. Dopodichè, il diluvio.
Ma andiamo con ordine
Il romanzo è diviso in tre parti, che fungono da introduzione, prologo ed epilogo, secondo la migliore tradizione letteraria. Tanto la trama quanto la narrazione procedono su binari paralleli: da una parte, c'è un gruppo di borgatari frustrati ed inetti, che hanno trovato in un satanismo di periferia lo sfogo alle loro insoddisfazioni; dall'altra, lo scrittore di successo, che succhia le ultime gocce di una popolarità sempre più esangue, legata ad un unico libro fortunato - il best seller- e ad un programma televisivo che ne ha consacrato l'immagine di intellettuale bello, cattivo e di sinistra. A far da scenario a questi personaggi, troviamo due sfondi adeguati, che fanno risaltare in modo impietoso le loro caratteristiche - il desiderio di affrancarsi da una vita grigia ed umiliante con un gesto eroico, per Saverio Moneta, la brama di ritrovare i palcoscenici che gli competono per Francesco Ciba, sfruttando ogni possibile trucco mediatico.
Fin qui, come dicevo, tutto bene, anzi: tutto benissimo. Ammaniti ha una penna felicissima, una notevole padronanza dei tempi e dei dialoghi, uno sguardo acuto e senza pietà, sorretto da uno stile asciutto, capace di far ridere e riflettere nello stesso tempo.
I problemi cominciano invece con la seconda parte, che è il punto di convergenza della narrazione, dove i protagonisti si incontrano e dove dovrebbe svolgersi il momento clou dell'azione, vale a dire l'uccisione della pop star colpevole di aver ripudiato il satanismo per convertirsi ala religione cristiana. Lo scenario è Villa Ada, acquistata dal losco arricchito di turno, che inaugura la sua nuova residenza con una festa che, nelle sue intenzioni, deve essere quanto di più spettacolare si sia mai visto, l'atto finale di un riscatto sociale che sa di vendetta e di tronfia vanità. Qualcosa va storto e l'evento si trasforma in una bolgia infernale - quasi nel senso letterale del termine- dove violenza, splatter, horror e pulp si susseguono incessantemente, fino al collasso della catastrofe finale.
Le intenzioni dell'autore, a questo punto, sono fin troppo smaccate: la sua satira dei vizi della nostra società dovrebbe assumere le forme deliranti del surrealismo, in una sorta di traduzione letteraria dei quadri di Hieronymus Bosch, dalla fantasia allegorica ed inquietante. Ma qui Ammaniti pecca di hybris, rivelandosi del tutto incapace di padroneggiare la materia: il surreale scade nell'irreale e, da qui, nel fine a se stesso, nello sconclusionato e, infine, nella noia.
E' un vero peccato, perchè l'idea di partenza è quasi geniale e i personaggi riscattano la loro immagine stereotipata rappresentando una galleria completa dei molti vizi e delle poche virtù della società odierna. Però manca la zampata finale, nonostante le occasioni per entrare a gamba tesa siano molte ed anche ben congegnate. Il che svilisce anche la sorpresa dell'epilogo, che sfuma in un romanzo abbozzato, irrisolto, irresoluto: insomma, un'occasione mancata
alla prossima
ale
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