sabato 6 ottobre 2012

Cinquanta Sfumature di....

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Rompo il riposo del Sabato, un po' per l'insonnia, un po' perchè sarebbe anche ora di riprendere le buone abitudini delle rece e un po' perchè era da parecchio tempo che non mi capitava di trovarmi avvinta come l'edera ad un romanzo che, stando alla quarta di copertina, non sarebbe mai dovuto finire nel carrello della mia spesa. Anzi, a dirla tutta, l'unico motivo per cui l'ho comprato è l'amore che mi lega a questa casa editrice, che con Amber inaugura una nuova collana, dedicata ai best seller di un tempo neppure troppo lontano, che oggi non s'usano più (e poi un giorno magari parleremo anche di un'altra di quelle cose che oggi non s'usano più, di quando i libri si acquistavano solo perché Einaudi o Sellerio e oggi invece bisogna leggersene metà, in bilico fra gli scaffali,  augurandoti che l'attacco di mal di schiena ti aggredisca quando sei arrivata almeno a capire se vale la pena di aprire il portafogli  o meno- ma non divaghiamo)

Nessun requisito per piacermi, dicevo, a cominciare dal paragone con Via col Vento, libro che nè possiedo nè ho mai letto (e a questo punto è inutile che aggiunga che neppure ho visto il film): non mi piacciono i polpettoni anni Quaranta, non mi piacciono gli stereotipi e delle buone maniere, francamente me ne infischio. Esattamente come mi sarei infischiata di questa Amber presentata come l'anti- Rossella, paladina di un' "emancipazione" conquistata a colpi dell'unica arma femminile che preferirei veder sepolta viva, anzichè trovarmela sulle prime pagine dei giornali un giorno sì e un giorno anche, magari associata a minorenni e borse di Gucci, ma tant'è: il libro è finito nella borsa e poi sul comodino e da quel momento lì non ce n'è stato più per nessuno, almeno fino a quando non sono arrivata in fondo alle quasi 900 pagine di una storia che mi ha tenuta incollata al romanzo come non mi succedeva da tempo

L'epoca, anzitutto: non quella dell'ambientazione della storia, ma quella in cui essa venne pubblicata. Siamo nel 1944, negli Stati Uniti- e nel 1945, in Gran Bretagna e nel 1948, in Italia- negli anni della ricostruzione, della miseria, dei sacrifici, in nome di un passato che non si voleva mai più rivivere e di un futuro che si annunciava gravido di opportunità e di conquiste sociali. Un'epoca di grande fermento, insomma, da cui le donne non erano certo immuni, anzi: l'esperienza della guerra, che le aveva obbligate a supplire gli uomini al fronte, in ruoli tradizionalmente maschili, aveva dato loro una nuova fiducia nelle capacità di un genere condannato da secoli ad una posizione di secondo piano. Tuttavia, la mentalità comune le voleva ancora inchiodate ad un destino stereotipato, sordo alle loro inclinazioni, ai loro desideri e alle loro aspettative e quanto più serpeggiavano questi fermenti, tanto più forte era la repressione, affidata anche a forme di persuasione più o meno occulta, che appiattivano l'immagine della donna "per bene" su canoni di comportamento omologati e intrisi di retorica e di moralismo. 
Ovvio che il "domani è un altro giorno" di Rossella O' Hara apparisse come il massimo della ribellione. Meno ovvio che, negli stessi anni, avesse preso a circolare anche un romanzo che oggi farebbe apparire le Cinquanta sfumature di grigio poco meno che ombre sottili, ma che all'epoca fece gridare allo scandalo mezzo mondo: non solo fu bandito da tutte le librerie di Boston, ma fu anche messo all'indice in 14 Stati e considerato responsabile di "70 riferimenti all'unione carnale, 39 a gravidanze illegittime, 7 ad aborti, 10 scene in cui le donne si spogliavano davanti a uomini con cui non erano sposate e una cinquantina di scene variamente pruriginose", come ricorda la Aspesi in una bella recensione su Repubblica. Sempre la Aspesi, ricorda gli ammonimenti del Production Code, il cosiddetto Codice Hays, una sorta di decalogo che vegliava sul cinema di quesgli anni, con l'intento di promuovere comportamenti edificanti nella società americana (e vietando, pertanto, i matrimoni fra persone di razze diverse, quale massimo esempio di edificazione morale, tanto per dirne una, oh yeah): guai a fare di Amber un film, si disse. E difatti, neanche un anno dopo, uscì nelle sale la versione cinematografica del libro, talmente "candeggiata", però, che non se la filò nessuno, a differenza di quanto era accaduto, pochi anni prima, con la premiatissima coppia Brent&Rossella. E così, di lì a poco, anche la fama del romanzo si spense, e Amber fu destinata all'oblio,  dimenticata sul fondo delle vecchie credenze o celata da innocenti copertine dalle abili mani delle nostre nonne. 

Ci son volute due generazioni a riportarlo in auge, come ricorda, in questa edizione Barbara Taylor Bradford, che trovò il romanzo proprio in un cassetto della cucina di sua nonna. Al di là delle facili battute sul DNA, resta il fatto che questo libro abbia segnato un'epoca e che, solo per questo, non meriti di essere dimenticato. 
Da qui a leggerlo solo come testimonianza di un periodo, però, ce ne passa: perchè, come dicevo all'inizio, il romanzo scorre che è un piacere, grazie ad una trama ricca di colpi di scena e ad una scrittura assolutamente felice: l'autrice, Kathleen Winsor, aveva molti tratti della sua eroina, quanto meno stando alla sua biografia, nella quale i matrimoni si succedono come grani di un rosario, dal primo, appena diciassettenne, con un compagno di università, al più famoso, con il jazzista Artie Shaw (quello di  e di Lana Turner e di Ava Gardner, a cui, ironia della sorte, aveva proibito la lettura di Amber, ben prima di sposarne la sua autrice); in seguito, ci furono l'avvocato che ne aveva curato un divorzio e finendo in gloria con un miliardario amricano, che la proiettò nella mondanità del jet set dei favolosi Anni Cinquanta a stelle a strisce.  Per quanto strano possa sembrare, però, il marito a cui la Winsor fu più debitrice fu il primo, il meno ricco e il meno famoso: è a lui infatti, studioso di storia inglese, che si devono i germi di quella passione per il periodo della Restaurazione che, assieme ad Amber, è il vero protagonista del libro. A detta dell'autrice, lei lesse quasi 400 tomi sull'argomento- e in tutta onestà, non c'è ragione di dubitarne: la precisione storica è puntuale, capillare, al limite del maniacale, e la si apprezza sia nei grandi affreschi della politica di quegli anni, sia nella ricostruzione degli ambienti e dello stile di vita dei tempi, descritti in modo attento e minuzioso: dagli abiti ai menu, dagli arredi alle acconciature, chiare pennellate che contribuiscono a creare un quadro storico di rara precisione, in un romanzo dichiaratamente "femminile" come questo. L'Inghilterra qui rappresentata è quella del dopo Cromwell, del ritorno degli Stuart a palazzo, nella persona di quel Carlo II bello e impossibile, che trasformò Whitehall in un bordello di lusso, fra intrighi, festini, amori cortigiani e tutto quanto fa Olgettina di lusso. Ma è anche la Londra della peste, del Grande Incendio, del Teatro del Re che apre alle prime attrici donne (l'ascesa sociale di Amber inizia proprio dal palcoscenico), della miseria e del lusso, dei banditi e degli usurai, degli astrologi e delle cameriere personali, del netto contrasto fra la salubrità della vita di campagna e i miasmi della vita londinese,  da cui la Corte, naturalmente, è la meno immune di tutti. 

In mezzo, c'è Amber,frutto di una nobile colpa,  ma cresciuta in campagna- la madre, morendo di parto, la affidò ad una contadina- che a sedici anni fugge aggregandosi ad un gruppo di cavalieri di passaggio, folgorata dall'amore per Bruce Carlton, bello, nobile e irresistibilmente bastardo, che le dice da subito quello che ogni donna emancipata vorrebbe sentirsi dire- e cioè che ne farà uno strumento di piacere, ma il matrimonio, mai e poi mai. Amber si adegua e, dopo un primo sbandamento iniziale, capisce che il vero segreto per l'ascesa sociale non è concedersi tout court, ma concedersi all'uomo giusto. Inizia quindi una trafila di "uomini giusti" che, scalino dopo scalino, la porterà a diventare la favorita del re, con tanto di ducato, palazzo nobiliare in città e pied à terre a Whitehall e figli bastardi d'ordinanza. Il tutto senza mai dimenticare lord Carlton che, nel frattempo, avrà mantenuto fede alle promesse, facendo fortuna nella pirateria legalizzata (corsari, si chiamavano), accumulando una flotta ed ingenti ricchezze, prendendo un prudente indirizzo americano e sposando un'altra, più giovane, più titolata e più ricca, di cui, orrore degli orrori, si professa pure innamorato. Questo non gli impedisce di divertirsi con Amber, seppur controvoglia, e di portarle via il primo figlio, il cui destino di futuro Lord Carlton gli impone di essere allevato da una madre come si deve- e pazienza se è quella Lady Carlton che, non paga di averti portato via tutto, si aggiudica anche questa posta. 

Sia chiaro: Amber è tutto, fuorchè una vittima. Si prende gioco di chicchessia, si pasce di intrighi, si vende al miglior offerente, senza che questo le provochi il minimo senso di colpa. E' una donna attenta solo alle apparenze, scaltra, pettegola, doppiogiochista e chi più ne ha più ne metta, tanto che, a tre quarti del romanzo, finisce per essere antipatica anche alla sua autrice: ne è prova il finale beffardo, ancor prima che ironico, a compimento di una condotta costellata di scivoloni plateali, tanto più sorprendenti quanto più riconducibili ad una che sulla scaltrezza e sulla padronanza di sè si è costruita il conto in banca. Ma si vede che, alla lunga, certi comportamenti stancano: la Winsor è sublime, nel non farsi mai sfuggire un giudizio morale e il finale è aperto proprio su questo, ancor prima che sulla trama: non solo nn sappiamo che cosa succederà di lei, ma neppure sappiamo che cosa di lei pensi la sua stessa autrice: il che, a ben guardare, è ciò che rende lieve una materia che leggera non è, proprio per niente.


buon fine settimana
Ale