Qualche anno fa, all'epoca in cui faceva l'inviato de La Stampa per il
Giro d'Italia, Alessandro Baricco capitò nel luogo dove si trova la casa
di famiglia di mio marito. E tale fu lo stupore per il clima che trovò,
che dimenticò ogni dovere cronistico-sportivo per dedicare l'intero
articolo alle brume ed alle nebbie che gravano perenni sui tetti del
paese, levando alti lamenti per la sorte dei suoi infelici abitanti.
Apriti
cielo: all'articolo seguì una sollevazione popolare, con tanto di
repliche sulla carta stampata e in televisione, da parte di tutti i
residenti, dai più ai meno illustri, che richiesero la cenere sul capo
dal povero Baricco, reo d'aver detto quello che, per noi genovesi,
equivale a un omaggio a Monsieur Lapalisse, e cioè che qui piove- e di
lungo.
Quindi, per non riaccendere ulteriormente gli animi, dirò in
forma pubblica e solenne che nel paese di mio marito c'è il sole.
Sempre. Fatta eccezione, ovviamente, per quei 365 giorni l'anno- 366 i
bisestili- quando bisogna uscire con l'ombrello- ed aprirlo pure.
Sia
chiaro: chi scrive adora la pioggia. Anzi, tanto per fare outing fino
alla fine, io detesto il caldo, l'estate ed anche il sole, se al mare.
So di essere l'unico esemplare vivente al mondo ad avere simili gusti,
ma siccome pare non ci sia cura, ho imparato ad assecondarli, facendo le
valigie per l'amata Albione allo spuntare dei primi oli solari, fin
quando lo stato civile me lo ha permesso e spostandomi al di là del
Turchino una volta impalmato il Signore del Feudo.
Quindi, a conti
fatti, io qui ci sto bene. E sono certa, anzi certissima, che, una volta
fatta l'abitudine ai cigolii della spina dorsale e all'indomabile
rigonfiamento delle chiome, vi trovereste bene anche voi, non foss'altro
che per i tre motivi che vi elenco qui sotto:
1. l'orto: vi
ricordate quando, alle Medie, dovevate imparare a memoria tutte le fasce
tropicali, da quella equatoriale a quella artica, tenendo bene a mente
che ogni passaggio avveniva in forma non traumatica e graduale? Bene,
qui facciamo eccezione. Siamo nell'unico posto al mondo, dove, passata
la barriera del casello, il clima si trasforma da macchia mediterranea a
foresta pluviale. Il che, tradotto in termini agronomici, significa che
quelle che a voi sembrano prugne sono in relatà mirtilli e quel campo
di ninfee che evoca laghetti giapponesi e quadri di Monet è solo il più
prosaico basilico della suocera. E sorvolo sulle dimensioni delle
zucche: mi limito a dire che se la famosa fatina ne avesse usata una
delle nostre, per il suo più celebre incantesimo, Cenerentola sarebbe
andata al ballo su un TIR...
2. l'immediato zittimento della
zampogna del custode, ex pastore calabro che lenisce la saudade
soffiando quel che resta dei suoi polmoni nelle canne di una pelle di
pecora. Perchè, ovviamente, noi qui non ci facciamo mancare niente: e
come abbiamo il roseto con ogni tipo di rosa che sia mai spuntata nel
creato, dal quarto giorno in poi, l'ortensiario con ogni gamma di
colore, dal blu al rosso, passando per l'indaco, il lilla e il violetto,
il pozzo e il bersò e la panchina in ferro battuto, abbiamo anche il
suono della zampogna sullo sfondo, in puro stile prima bucolica. Con la
piccola differenza che i custodi calabri non si chiamano nè Titiro, nè
Melibeo, nè Amarillida, bensì Carmelo, Maruzza, Pasquale e Clementina
gli adulti e Maicol, Gessica, Kevin e Sindy i piccoli (la grafia è
fedele alla registrazione anagrafica: ho anche le prove, se le volete). E
che il suono della zampogna è una specie di medley fra il grugnito di
un'orda di cinghiali in calore e un trionfo di trombette da stadio,
inframmezzati dai rantoli del custode, in un'interpretazione di rara
intensità e di pura sofferenza, che recupera dalle profondità delle
domande di senso interrogativi arcani ed inquietanti - dal "non è che
muore????" al "quand'è che muore????", per intenderci
3. si
cucina. Un po' per forza ( vedi alla voce orto anarchico), un po' per
dovere (vedi alla voce marito) un po' per fare un uso dei coltelli più
urbano e più creativo di quello che, a volte, mi verrebbe in mente,
fatto sta che qui dentro i fornelli sono accesi a tutte le ore.
Quello
che ne esce è il trionfo della cucina semplice, dei sapori di una
volta, della famiglia intorno alla tavola, della tradizione e dei
ricordi- e pazienza, se fuori piove: si sta così bene qui....
La versione della foto ha una base di pasta sfoglia, ma nulla vi vieta di preparare un guscio di brisèe o, meglio ancora, di pasta al vino (senza burro): l'essenziale è che resti un sapore neutro, non aromatizzato, intendo, in modo da far risaltare meglio il ripieno, che è davvero un trionfo di profumi
Per la versione più raffinata
250 ml di panna
3 uova grandi ( o 4 medie)
100 g di feta
3 zucchine
menta fresca
la scorza grattugiata di un bel limone
sale
pepe bianco
Per la versione rustica, sostituire alla panna 200 g di ricotta.
Si mondano le zucchine, si tagliano a fettine non troppo sottili e si fanno andare in padella con olio EVO e sale: attentissimi a non farle nè friggere, nè stufare. Portatele a cottura aggiungendo un Mestolino di brodo alla volta, senza che il liquido le ricopra completamente, e a recipiente scoperto. Quando sono croccanti, sono pronte. Pochi minuti prima di toglierle dal fuoco, aggiungete le foglioline di menta
mescolate la panna alle uova, sbattendo rapidamente con una forchetta, aggiungete la feta sbriciolata e gli zucchini, quando si sono intiepiditi. Grattugiatevi sopra la buccia del limone, date una bella macinata di pepe bianco, aggiustate di sale e riempite il guscio di pasta.
Se usate la ricotta, incorporate le uova ad una ad una e lavorate il composto con un cucchiaio o una forchetta( non con le fruste, intendo: non deve montare). Poi, procedete come sopra
In forno a 200 gradi per 30 minuti minimo
Se invece preferite la misura delle foto- l'ideale per un buffet- dovete ridurre le uova a 2 grandi o 3 medie, e i tempi di cottura: 15 minuti dovrebbero essere più che sufficienti: comunque, quando sno gonfie e dorate sono pronte.
A domani