cos'è che dico, da quando scrivo di libri su MT?
Che
Camilleri ormai è l'equivalente di una telefonata a un vecchio amico, a
cui mi lega un affetto consolidato ma stanco, senza emozioni, senza
palpiti, senza sorprese? E che la sorpresa più bella targata Sellerio di
questi ultimi anni ha la parlata toscana di tal Marco Malvaldi da Pisa
(che scopro ora essere nato il mio stesso giorno, ma guarda te), l'ormai
ex chimico divenuto scrittore a pieno titolo e fra poco anche
sceneggiatore televisivo, vista l'annunciata fiction sul Bar Lume?
Ecco: dimenticatevi tutto.
O meglio: invertite i giudizi, almeno in relazione alle ultime fatiche letterarie dei due, che hanno suscitato in me sensazioni diametralmente opposte, sia in riferimento alle opere, sia in relazione agli autori. Avevo iniziato Camilleri con l'aria di sufficienza di chi decide, per l'ennesima volta, di regalare due ore del suo tempo a una lettura che in partenza si prevede deludente ed inutile- e mi son ritrovata a ridere ed arrabbiarmi ed emozionarmi e godermi ogni periodo, ogni frase, ogni parola come non mi succedeva da anni. Avevo iniziato Malvaldi con l'espressione della sposina sull'altare, che non vede l'ora di cogliere a piene mani la soddisfazione di promesse finalmente esaudite e mi son ritrovata a metà, con l'aria arcigna della prof zitella e la tentazione di recuperare dai cassetti le matite rosse e blu con cui ai miei tempi si correggevano gli errori, per sfogare su una prosa piatta ed autocompiaciuta tutta la mia delusione.
Ma andiamo con ordine.
Una
voce di notte, di Camilleri, è un gran bel giallo. L'autore ci avvisa
in una nota a fondo libro che si tratta di un'opera vecchiotta, che
Sellerio aveva tenuto in caldo per una strategia editoriale la cui ratio
è sfuggita anche all'autore, come egli stesso riconosce, non senza un
po' di veleno nella coda. In effetti, qualche riferimento che non quadra
c'è (il più evidente di tutti è il compleanno del commissario, che in
apertura di romanzo festeggia i suoi 58 anni), ma francamente son
quisquilie, visto che per tutto il resto è una storia perfettamente
sintonizzata con gli umori di questi ultimi tempi. Anzi: lo è a tal
punto da far supporre che le misteriose ragioni della permanenza del
manoscritto nel cassetto dell'editore possano anche dipendere da un
eccessivo politically uncorrect, visto che questa volta l'affondo è
mirato contro un sistema giudiziario sempre più incline a far finta di
niente contro i delinquenti veri e, per contro, ad affermare la propria
identità perseguitando i poveracci. Il che, a ben guardare, è un altro
valore aggiunto ad un romanzo che mantiene i pregi di sempre, a livello
di scrittura, e torna ai fasti di una volta per quanto concerne trama e
contenuti. Il plot c'è- ed è bello tosto, al punto da richiedere un
Montalbano più investigativo del solito, abilissimo nel condurre
interrogatori e nel seguire un fiuto che torna ad essere ancorato ai
fatti e quindi a coinvolgere il lettore, in quella sottile sfida che da
sempre è la vera ossatura del romanzo giallo,oltre che la sua forza e la
sua linfa vitale. Non a caso, questa volta i membri della squadra del
commissariato di Vigata tornano a rivestire gli antichi ruoli di
comprimari: insostituibili e irrinunciabili, ma rigorosamente al fianco
di un protagonista che torna a risplendere di vita propria e lo fa con
una luce che offusca tutto il resto: Catarella, Fazio, Augello e,
buon'ultima, la stessa Livia, ridotta ad una voce al telefono- per
altro, sempre petulante. Il risultato è un gran bel romanzo,
confezionato attorno ad una storia che regge, ad un personaggio tornato
ad essere pienamente credibile e ad un'ambientazione che, relegata sullo
sfondo di un'operazione investigativa, smette di tappare le falle delle
opere precedenti e recupera la sua funzione originaria, di strepitoso
basso continuo capace di tenere assieme le fila della trama e di
connotarla in modo esclusivo e indimenticabile. Da mettere sotto
l'albero, assolutamente.
"In
mezzo alla radura, a torso nudo, nonostante il freddo di gennaio, c'era
un tizio alto circa un metro e cinquanta, completamente pelato, con una
barba che arrivava alla pancia e con due polpacci che sembravano dei
san Daniele: qualcosa che, come primo istinto, già da sola faceva venire
voglia di guardarsi attorno per vedere se da qualche parte ci fosse
anche Gandalf" (Malvaldi, M., Milioni di Milioni, pp. 16-17)
Parto
da qui, perchè questo è uno dei punti che più mi hanno irritato, nella
lettura dell'ultimo romanzo di Malvaldi. E se considerate che eravamo a
cavallo delle pagine 16 e 17, è facile immaginare il florilegio di
bestialità che mi era già toccato leggere prima, tutte targate "oh come
faccio ridere, o come sono bravo". Perchè è questo che mi crea fastidio
nella prosa di Milioni di Milioni: quel malcelato
autocompiacimento, quella scrittura buttata lì, quelle invenzioni che
sarebbero potute anche essere azzeccate, se solo ci fosse stato un
minimo di padronanza dell'uso della lingua e dei tempi. Malvaldi,
oltretutto, viene dal giallo classico- e anche la storia che racconta in
quest'ultimo romanzo ha tutti gli ingredienti per essere connotata in
questo modo: il paese isolato dalla neve, la cerchia dei colpevoli
ristretta, il protagonista che deve difendersi- e poi il paese picccolo
dove la gente mormora, la bella collaboratrice che si improvvisa
investigatrice, gli scheletri negli armadi e il cherchez la femme di
poirottiana memoria: a parte la scrittura, tutto.
Perchè-
e qui torno ad essere pedante e noiosa, ma tant'è: mica ve l'ho detto
io, di scirvere libri gialli- chi decide di cimentarsi in questo genere
deve avere ben conficcato in testa che il requisito che è richiesto,
primariamente e assolutamente, è avere una tale capacità di scrittura da
saper padroneggiare la trama, dall'inizio alla fine. Di solito, si
tende a pensare il contrario: datemi un buon plot e vi darò un buon
giallo. Ma se fosse sempre così, non avremm avuto Agatha Christie, tanto
per dire il primo nome a caso. I cui plot, è risaputo, si basavano
tutti su un unico assunto, e cioè che il colpevole era quello che aveva
il movente più forte. Stava a lei, poi, inquinare le acque con sagacia,
acume, e lealtà, in modo da dare al lettore lo stesso numero di indizi a
disposizione dell'investigatore, ma a frammentarli con distrazioni di
ogni genere, che fossero altre piste o altri cadaveri.
Questo
è esattamente ciò che Malvaldi non fa, consegnandoci una trama talmente
mal costruita da farci indovinare il colpevole pressoché da subito,
appena si attenua l'incavolatura per l'andamento della sua prosa. E,
quel che è peggio, lo fa con l'arroganza di chi ormai la fama se l'è
conquistata e quindi può permettersi di tutto, anche di prendere in giro
i suoi lettori devoti, che gli avevano perdonato le progressive
smagliature della trilogia del Bar Lume, attingendo a piene mani dalla
riconoscenza per Odore di Chiuso e per quella ventata di rinnovamento
che è sempre un beneficio per le case editrici che decidono di puntare
sui giovani. A patto che lo restino e non si atteggino a grandi
scrittori dopo i primi successi: perchè allora ci tocca proprio
dirglielo, che le Agathe e gli Ellery e i Dickson Carr stanno su un
altro pianeta, per aspirare al quale sarà bene iniziare da subito a
riaffinare le armi, con un bel manuale di creative writing da una parte-
e un sano bagno di umiltà dall'altra.
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