mercoledì 28 novembre 2012

Starbooks di Novembre- L'Insuccesso


PicMonkey Collag1e



Stavolta, sono imbarazzatissima. Perchè credo di essere l'unica, nella squadra dello Starbooks, a uscire insoddisfatta dalla verifica delle ricette di Scandinavian Christmas. Su cinque provate, in totale, solo una ha incontrato i miei gusti: delle altre, tre si sono rivelate una delusione e una- quella che segue- non è proprio riuscita. Per cui, per la prima volta da che esiste questa squadra, mi ritaglio una stanza tutta per me, dove esprimo tutte le mie perplessità, per poi passare al ruolo più ufficiale, di quella che tira le somme con equilibrio e obiettività. Un po' come Fantozzi, quando si sfoga in privato, insomma :-)



Quello che penso io: la prima cosa, è che non mi piace la cucina scandinava, quanto meno non quella rappresentata in questo libro. Il che, vale come un'assoluzione per l'autrice e la sua opera. Se le patate caramellate, dopo due ore di cottura e un kg di zucchero, alla fine avevano un sapore pressochè identico alle patate dolci, che tanto vale compravo quelle e me la cavavo in metà tempo, non è colpa dell'autrice. Così come non è colpa sua se i cavolini di Bruxelles coi mandarini hanno un retrogusto amarognolo che copre tutto quanto e dopo i due minuti di cottura in padella che vengono indicati sono ancora crudi: sarà dipeso dalla qualità dei cavolini che ho comprato io. Quello che però mi ha lasciata insoddisfatta, al di là dei gusti personali, è la superficialità del testo. Tre annotazioni in croce, senza nessuna concessione ad eventuali errori. Per dire, se lascio cuocere i cavoletti più dei due minuti previsti (o quattro: comunque, pochissimi), è ovvio che prendano un retrogusto amaro. Ma se li lascio in padella per così poco, son crudi. Allora, avrei preferito che l'autrice entrasse nel merito del problema, raccomandandosi di non prolungare la cottura oltre un tot, per dire. Idem per i pepparkakor con il golden Syrup: fa schifo, il Golden Syrup, se paragonato al miele della ricetta originale. Considerato che oltretutto non  appartiene alla tradizione svedese, sapere perchè si usa questo ingrediente e non l'altro, manifestamente più adatto a quel tipo di biscotto, spiegare il motivo di questa sostituzione avrebbe chiarito le intenzioni dell'autrice. O forse no: però, di sicuro, avrebbe dato l'impressione che dietro a questa pubblicazione ci fosse un sincero desiderio di far conoscere la cucina della propria terra di origine e non quello di portare a termine l'ennesima operazione di marketing.

Il giudizio complessivo della squadra, però, è positivo: tant'è che penso di essere stata semplicemente sfortunata nela scelta. Però, è proprio sulla base di questi insuccessi che son venuti al pettine i nodi di quest'opera, come cerco di spiegarvi con l'esempio di questa torta qui, che è stata un fallimento epocale, come non capitava da tempo immemorabile. 


La Ring Cake- in lingua originale Krasencake-  è una torta svedese tradizionale, a base di pasta di mandorle, che si prepara di solito per le feste nuziali o comunque per le grandi occasioni. Tanto per avere idea del risultato finale, è una cosa del genere

image from here

La si prepara partendo da un impasto fluido, che viene cotto in stampi appositi, piatti e con scanalature a forma di cerchi concentrici, nei quali viene versato il composto e che poi vanno in forno


 
Image from here
Sono venduti a set, sono già proporzionati, per cui alla fine la costruzione del dolce è molto più semplice di quanto possa sembrare a prima vista: una volta cotti gli anelli, si sformano e si impilano, senza nessun bisogno di prendere le misure. Per tenerli assieme, si usa un po' di glassa, di zucchero o di marzapane o di cioccolato bianco- che è quella che crea anche i motivi ornamentali che vedete nella foto. 
Scartabellando in rete, ho trovato molte ricette, fortunatamente tutte uguali: si prepara una specie di marzapane casalingo, con un tpt di mandorle tritate e di zucchero a velo, tenute insieme con dell'albume e poi si cuoce. Fine. (potete leggere tutto qui, in italiano, con tanto di realizzazione bellissima del prodotto finito). 

Rispetto alle ricette tradizionali, la versione della Hahelmann eliminava gli stampi e proponeva quindi un impasto più compatto, con l'aggiunta di marzapane. 
Cito a memoria, perchè non ho il libro sottomano
375 g di mandorle
375 g di zucchero
75 g di albume
500 g di marzapane

Dopodichè, si dovevano arrotolare otto cilindri, ciascuno di tre cm minore dell'altro, per poter ottenere dei cerchi concentrici, da attaccare fra loro con del cioccolato fondente. 

Premetto che tutta questa pappardella qui è frutto di miei personalissimi studi :-). La Trina non si premura di dare nessuna spiegazione, se non le solite tre righe in foodbloggerese che inneggiano alla scenografica bontà del dolce. Non parla di tradizioni, non parla di stampi, neanche dice che lei dimezza il numero dei cerchi, per dire, con ovvie ripercussioni sulla "scenografica bontà" di cui sopra.


In ogni caso, io eseguo alla lettera, come da Starbooks- e ottengo come primo risultato una pasta di mandorle piuttosto fluida, ovviamente non lavorabile a mano. Ma c'è il marzapane da "grattugiare", come da ricetta. Se non che, il mio non si grattugia, per niente. Anzi, dopo un po' che lo tengo in mano, inizia a sudare copiosamente. E a rammollirsi sulla grattugia. Un attimo prima che implori pietà, smetto. E resto lì, con del marzapane spappolato da una parte e un impasto inutilizzabile dall'altra, a chiedermi cosa fare. 

Consulto il libro, in cerca di aiuto. 
Niente
"Grattugiare il marzapane", dice, e nulla di più. 
Provo col coltello, con la mezzaluna, col frullatore - e tutto quello che ottengo è un pappone sformato e molliccio. 
Inizio ad aggiungerlo al composto di mandorle, zucchero e albume. Un cucchiaio per volta. 
non va. 
Provo all'inverso, un cucchiaio di composto nel marzapane. 
Nel frattempo, la cucina è diventata un campo di battaglia, con frullatori sporchi, pile di terrine, tutta la collezione di grattugie tirata fuori dai cassetti- e la carogna della sottoscritta, che pure in mezzo a tutto quel casino trova la via per montare, inesorabile. 
Alla fine, mi faccio coraggio e passo all'impasto a mano. 
E la carogna si trasforma in panico puro, quando realizzo che sono praticamente incollata alla madia.
Faccio un fioretto (se mi stacco, prometto che la brevetto) e mi appello all'estremo diktakt di qualsiasi casalinga disperata, quel "salvate l'impasto a tutti i costi"- e da lì in poi è tutto un aggiungere farina di mandorle, per liberarmi dalla morsa del composto prima e per cercare di tirarci fuori qualcosa, poi. 
Il risultato è quella storta creazione che vedete in foto e che, come prevedibile, ha preso subito la via della rumenta. L'abbiamo assaggiata, faceva schifo. 

Il punto è che, probabilmente, avrebbe fatto schifo anche se fosse riuscita: perchè aggiungere marzapane a un composto di marzapane, per ottenere un dolce alto la metà di quello originale, che è formato da marzapane e basta, significa avere una mappazza dolcissima- e nel mio caso, pure appiccicosa. 
Da buona genovese, ci aggiungo che quello che è finito nella spazzatura è stato circa un kg di pasta di mandorle: siccome in questi casi non bado a spese, fatevi un po' due conti e avrete solo una vaga idea di quanto e come abbia pensato alla Trina, quel giorno e nei due successivi. 
come se non bastasse, pure la scheda telefonica non ha retto a cotanto capolavoro. Si è fulminata, a torta già in discarica. L'unica foto che son riuscita a recuperare è quella che vedete e tutto sommato va bene così, che certi spettacoli bastano una volta sola...


Eccovi le altre ricette- tutte infinitamente più belle di questa
La Ale: Pepper Nuts
La Cristina: Glogg


con dicembre, lo Starbooks va in letargo, per riprendere a gennaio. Tuttavia, siccome è tempo di regali, abbiamo pensato di farvi una sorpresa. che per ora mi limito ad annunciare (perchè se non c'è un po' di suspance, che sorpresa è?) ma che arriverà a breve, su tutti gli schermi. Voi state attenti, che la prima slitta che passa è la nostra :-)
buona giornata
ale



domenica 4 novembre 2012

No, Sellerio, No






... che poi, quando leggi, certi libri, te le strappano di bocca, quelle considerazioni a cui hai sempre voluto fare orecchie da mercante, perchè intrise di così tanta invidia da sembrar solo malignità. Perchè non è un mistero che certe case editrici mi piacciano più delle altre- e che la Sellerio sia fra queste, grazie ad una serie di scelte raffinate, mai banali, complessivamente coraggiose, che negli anni me l'hanno resa cara, quasi come un'amica. Mi basta vedere gli inconfondibili dorsi blu delle sue edizioni, per sentirmi meglio, per dire. Ma quando mi imbatto in titoli come questo, fatico a non accodarmi al coro dei maligni di cui sopra, quelli che indicano in Camilleri l'àncora di salvezza di una azienda ormai alla deriva: perchè se mai c'è cosa che mi fa infuriare è l'essere presa in giro- e quando questo avviene per mano di chi stimi e sostieni e difendi, mi infurio, ancora di più. 

Hotel Bosforo è un romanzo di Esmahan Aykoll, scrittrice turca che vive a Berlino, a cui il successo del libro ha arriso molta fortuna: tant'è che subito dopo sono usciti altri due titoli, con la stessa protagonista, la stessa ambientazione e, se tanto mi dà tanto, pure la stessa trama, visto che una delle certezze che accompagnano la fine della storia e che fra le varie cose che la signora non sa fare, c'è pure quella di destreggiarsi con i meccanismi del giallo. 
E questa è la prima cosa che mi fa arrabbiare: perchè il genere giallo ha delle regole, e scrivere un romanzo giallo è una cosa seria, che richiede capacità di scrittura superiori alla media, oltre che una piena padronanza delle dinamiche sottese allo sviluppo della trama. Non bastano un morto, un detective e un assassino, insomma: in mezzo, ci deve essere un filo rosso, che va tessuto con acume, maestria, abilità, i requisiti fondamentali di chi sa di affrontare un genere che ha nella sfida al lettore una componente imprescindibile e irrinunciabile. Il sottile piacere che pervade un lettore di Gialli, dalla prima all'ultima pagina, è proprio il brivido della sfida: che va condotta con lealtà, intelligenza, acume, secondo una prospettiva che è la fusione di molti punti di vista- quello dell'assassino, quello del detective e quello dello scrittore: perchè, non dimentichiamocelo, "giallo" è un aggettivo: è "romanzo", il sostantivo a cui si appone. 

Lo stesso vale per l'ambientazione, che è tutto, fuorchè un elemento accessorio. Ci sono storie che non possono essere scisse dal loro ambiente: che cosa sarebbe Montalbano senza Vigata, per dire, o Miss Marple senza Saint Mary Mead, o Wallander fuori dalla Svezia, per non parlare della casa di arenaria sulla 34esima o del 221b di Baker Street- ed è meglio che mi fermi, prima di arrivare al balcone di Giulietta e alla casetta di marzapane di Hansel e Gretel: che comunque son tutti luoghi così connotati e connotanti che è immaginare questi personaggi al di fuori di queste determinate cornici è praticamente impossibile. 

Questo vale a maggior ragione quando si scelgno come scenari luoghi di per sè evocativi di fascino e di magia: Istanbul non è Pentema, per dire. (Pentema è pittoresco paesino di poche anime, arroccato su un monte dell'entroterra genovese, giusto per quei due o tre che magari non lo sanno). E fare della protagonista una libraia, per un prodotto che ha come clienti dei lettori, ha un impatto maggiore di qualsiasi altra professione. "Un romanzo giallo ambientato a Istanbul che ha come protagonista una giovane donna, di professione libraia"- questo è il messaggio che emana, forte e chiaro, dalla terza di copertina e da tutte le recensioni in giro sul web e che, dai miei neuroni, è stato immediatamente codificato nell' unico imperativo categorico che con me abbia successo: "Comprami", diceva quel romanzo- ed io ho obbedito. 
Viola Valentino batte Emmanuel Kant, 1-0

Dall'incavolatura annunciata, presumo che sia facilmente intuibile che nessuna di queste promesse sia stata soddisfatta da questo romanzo. Che non sia un giallo, già l'ho detto. Che Istanbul sia un accessorio, lo aggiungo ora: in certi momenti, mi sembrava pure di leggere la Lonely Planet (e io odio pure quelle, detto tutto). Peggio va con la libreria, la cui gestione viene affidata ad una povera studentessa che passava di lì, non appena la protagonista si rende conto che la polizia turca non può fare a meno del suo acume (e che lei non può fare a meno di approfondire la conoscenza con l'ispettore, in rigorosi termini biblici), grosso modo a pagina tre. 
Il che significa che, grosso modo da pagina tre, la protagonista ti stia sui maroni, in un crescendo di franca antipatia che monta a mano a mano che la storia va avanti, in un susseguirsi di dialoghi piatti, di descrizioni da guida turistica per fighetti, di scene hard che ti fanno rimpiangere di non aver speso grosso modo la stessa cifra per comprarti le sfumature di grigio, non fosse altro che per condividere con la portinaia gli sguardi di rinnovato interesse del portalettere, del portamulte e dei vicini tutti.

Il colpo mortale- e qui son seria- lo dà il finale. Non già perchè sia una sorpresa- la trama sfugge di mano alla sua autrice sin dai subito- quanto perchè il tema affrontato è l'argomento più delicato, più devastante, più traumatico che possa essere immaginato. Sceglierlo come fulcro di una storia impone come  sommamente doveroso un rispetto capillare, ancor prima che assoluto, capace di sintonizzarsi in modo pieno su tutte le infinite corde che danno voce alla profondità del dolore di un'anima, ogni volta che è straziata da simili drammi

Trasformare in un accessorio anche questa tematica è cosa che va oltre: oltre il buon gusto, oltre la decenza, oltre la dignità. E oltre la benevolenza che le frequentazioni antiche ti spingono a riservare a chi, nel bene e nel male, ritieni un amico, sia esso il tuo vecchio compagno di banco o la casa editrice che ha rappresentato il porto sicuro delle letture dei tuoi ultimi vent'anni. 

Stavolta, no, Sellerio: proprio no.

mercoledì 24 ottobre 2012

Sweet Potatoes Pie- e Martha vs Benedetta

sweet potatoes pie- M. Stewart


Ultimo giro per lo Starbooks di ottobre, ma se mai ho acquisito un po' di "occhio", in quest'esperienza, scommetterei qualcosa sul fatto che il nostro saluto a Martha Stewart sia un arrivederci, invece che un addio: nel bottino di queste tre settimane di verifiche, infatti, contiamo ancora tanta curiosità, oltre al divertimento e alla soddisfazione per i risultati. Il che, a ben guardare, è ciò che si cerca in un manuale di cucina: affidabilità e ampia possibilità di utilizzo. E il Martha's American Food, sotto questo aspetto, si aggiudica il punteggio pieno. 

Come d'altronde gran parte dell'editoria anglosassone, mi verrebbe da aggiungere, a corollario di una riflessione che sto facendo da un po', grosso modo da quando ho smesso di acquistare libri italiani (salvo alcune eccezioni) per dirigermi esclusivamente verso il mercato straniero. E da quando, proprio parlando della Stewart, qualcuno di voi ha azzardato un paragone fra quest'ultima e la nostra Benedetta Parodi. Che con la Martha c'entra come i cavoli a merenda, sia chiaro: epperò, proprio queste distanze suggeriscono di andare oltre quello che si vede, per tentare un approccio alla questione che non sia il solito dare addosso a tizio- e magari anche a caio. 
Benedetta Parodi è conduttrice garbata, colta, autoironica, piacevole. Può non riuscire simpatica a tutti, come è ovvio, ma ha una dote che manca alla maggior parte delle conduttrici donna, vale a dire la capacità di prendersi in giro, al momento giusto. E già questo è un punto a suo favore. Ci aggiungo che non urla, non provoca, non è mai sopra le righe, lascia spazio agli ospiti e li valorizza tutti senza mai perdere il filo della conduzione- e vi assicuro che, per il livello medio della nostra televisione, questo è grasso che cola. 
il problema, semmai, è cosa c'èntrino con lei i suoi programmi: perchè tanto la Parodi è professionale nel suo lavoro, quanto i contenuti dei suoi appuntamenti televisivi sono la quintessenza del dilettantismo, nell'accezione deteriore del termine: l'esaltazione di una "non cucina", ottenuta per giunta attraverso scorciatoie al limite della scorrettezza, che ben si collocano nel più generale panorama dell'apparire italico, dove l'importante è millantare. Si millantano giovinezze che non ci sono, competenze che non ci sono, virtù che non esistono, che male ci sarà, a millantare anche di saper cucinare?
Nel programma della Stewart, per contro, questo è assolutamente bandito. Tutto ciò che viene proposto è all'insegna della credibilità: deve essere credibile la ricetta, devono essere credibli gli ingredienti, deve essere credibile la concezione stessa che ispira lo show: se di cucina si tratta, che cucina sia- e lo sia per davvero. 
Sono di corsa e non posso approfondire l'argomento come vorrei: ma credo che si sia capito dove voglia andare a parare. Non sulla bravura della Stewart, non sulla supposta non bravura della Parodi, ma sulle aspettative del pubblico. Perchè è questo quello che fa davvero la differenza ed è questo che noi troppo spesso dimentichiamo. 

 sweet potatoes pie- M. Stewart
 
Il pubblico statunitense, che pure non ha alle spalle una tradizione gastronomica così illustre come la nostra, non transige sulla soddisfazione delle sue aspettative: paga moltissimo, è vero, ma solo partendo da questo presupposto. E i programmi di cucina, anche quelli strutturati come veri e propri momenti di intrattenimento, devono comunque avere dei contenuti chiari e di sostanza: la pie di zucca con la frolla del supermercato e il ripieno della bustina lo so fare da solo, senza che ci sia bisogno che me lo dica tu- sembrano dire gli spettatori al di là dello schermo. 
Da noi, invece, è capitato il contrario. Ed è ovvio che gli autori del programma ci si siano buttati a pesce, a maggior ragione considerato che di tv commerciali si tratta. 
Tutto il nostro patrimonio, la nostra tradizione, i trucchi delle nostre nonne e ele ricette delle nostre mamme,i km zero, i proclami salutisti e gli eataly che nascono come funghi, puff, sono spariti di fronte alla promessa di una crostata perfetta, in 5 minuti. 
E lo stesso vale per la svolta dell'editoria italiana, che ha spinto sull'acceleratore dell'immagine, della grafica, della foto (cosa buona e giusta), tralasciando in molti casi  la parte dei testi (cosa sommamente no buona e no giusta): col risultato che la bella torta della foto, nella mia cucina si è ridotta ad un ammasso informe e impresentabile, anche se ho seguito tutto alla lettera. 
Riprendiamoci i contenuti, mi verrebbe da dire. Che è quello che facciamo noi, nel nostro piccolo, ogni mese, con questa iniziativa, sempre più seguita, sempre più attesa. E questo, forse, è già un bel passo avanti...

Di seguito, tutto qello che abbiamo provato per voi, in questa settmana:

La Apple Pie di Mary Pie: Zesty Crab Cakes
Andante con Gusto: Maple Bundt Cake
Ale Only Kitchen: Buffalo Chicken Wings
Vissi d'Arte e di Cucina: Pigs in a Blanquet
Le Chat Egoiste: Stuffed Mushrooms
Arricciaspiccia: Skillet Cornbread
e su Menuturistico la 

SWEET POTATOES PIE

sweet potatoes pie- M. Stewart



Impasto base per la pie (per due dischi)

360 g di farina
1 cucchiaino di sale
1 cucchiaio di zucchero (circa 30 g)
250 g di burro freddo, tagliato a pezzetti
da 60 a 120 ml di acqua fredda

Mettere farina, sale e zucchero in un robot da cucina e iniziare ad amalgamarli, usando la funzione "pulse". Aggiungere il burro. Usare la funzione "pulse" fino a quando gli ingredienti si sono amalgamati per formare delle grosse briciole (circ 10 secondi). Spruzzare circa 60 ml di acqua sull'impasto e continuate sempre ad impastare nel robot, con questa funzione, fino a quando la pasta inizia ad essere compatta, senza essere bagnata o appiccicosa. Se fosse troppo asciutta, aggiungete un po' d'acqua, un cucchiaio alla volta, aggiungendo il successivo solo quando il precedente è stato assorbito. 
Dividere l'impasto in due dischi, avvolgeteli nella pellicola ed appiattiteli, dando loro la forma di un disco.
Teneteli in frigo, fino a quando diventano freddi- da un minimo di un'ora a tutta la notte. L'impasto può essere congelato e si conserva per un mese: quando decidete di utilizzarlo, è preferibile lasciarlo scongelare in frigo per una notte. 

Sin qui la Martha, ora arrivo io :-)
Dunque, questo è l'impasto base con cui negli USA si preparano le famose pies, una sorta di frolla all'acqua, con molto meno zucchero rispetto alle nostre. Tant'è che al tatto si ha una pasta croccante e friabile, e al gusto un sapore neutro, che è perfetto per accogliere i ripieni. 
La lavorazione è simile a quella della nostra frolla, nel senso che tutto ruota attorno alla temperatura del burro: non si deve scaldare, pena la non riuscita dell'impasto. Di solito, l'optimum è lavorare a mano, e con le mani fredde (basta bagnarle sotto il getto dell'acqua corrente, fredda ovviamente, e ricordarsi di asciugarle prima di iniziare a lavorare): ma se usate un robot da cucina, come la Stewart, dovete usare la funzione "pulse", quella cioè che fa lavorare il motore del robot ad intermittenza. Un po' come la funzione "spiga" del Bimby, per intenderci. 
Consiglio spassionatissimo: iniziate così, nel robot, lavorandolo con questa funzione. Appena si formano le bricioline, cioè poco dopo aver aggiunto i 60 ml d'acqua, trasferite l'impasto su un piano di lavoro leggermente infarinato e proseguite a mano: vi ci vorranno due o tre minuti, al massimo- e in compenso avrete la pasta "sotto le mani": sentirete se è troppo umida o troppo asciutta ed eviterete di lavorarla troppo, col rischio di bruciare il burro e comprometterne il buon risultato.

sweet potatoes pie- M. Stewart

per il ripieno
2 patate dolci, bollite e pelate (circa 6-7 hg)
25 g di burro
150 g di zucchero di canna
2 cucchiai di sciroppo d'acero
1 cucchiaio di bourbon (facoltativo)
1 cucchiaino di estratto di vaniglia
1/2 cucchiaino di cannella macinata
1/2 cucchiaino di sale
un pizzico di noce moscata grattugiata all'istante
250 ml di panna
2 uova, grandi, più un tuorlo
140 g di noci pecan, tostate e sminuzzate grossolanamente
1 cucchiaio di panna

panna montata, per servire


tortiera da 25 cm di diametro
1 disco di impasto base per pies

1. su un piano di lavoro leggermente infarinato, srotolate il disco di pasta e col mattarello appiattitelo fino a dargli la forma di un disco di circa 30 cm di diametro, allo spessore di mezzo cm circa. Eliminate la farina in eccesso. Stendete l'impasto in uno piatto da pie del diametro di 25 cm (io ho usato una tortiera per crostate, dal fondo estraibile, di 26 cm di diametro) in modo che fuoriesca dai bordi di circa un cm. Piegatelo intorno al bordo della tortiera, schiacciandolo per sigillarlo, e decorarlo con i rebbi di una forchetta. Coprire con pellicola trasparente e mettere in frigo da un minimo di mezz'ora al massmo di un giorno

2. Preriscaldare il forno a 190 gradi (grata al centro). Bucherellare con una forchetta il fondo dell'impasto, rivestirlo con carta da forno e riempirlo con fagioli secchi. Infornare e far cuocere fino a quando inizia a brunire, per circa 15 minuti. Eliminare la carta da forno e i fagioli e far cuocere per altri 8 minuti. Trasferire lo stampo su una gratella e lasciar raffreddare. 

3. Con un mixer elettrico, a bassa velocità, montare le patate e il burro fino a quando diventano morbidi. Aggiungere 110 g di zucchero di canna e proseguire con lo sciroppo d'acero, il bourbon (se lo usate), la vaniglia, la cannella, il sale e la noce moscata. Mescolare, fino ad amalgamare bene tutti gli ingredienti. Aggiungere la panna, un uovo intero e il tuorlo. Continuare a lavorare, con il mixer, fino ad avere un composto spumoso.

4. Cospargere la base della pie con il resto dello zucchero e disporvi le noci, tostate e sminuzzate grossolanamente. Versarvi sopra il ripieno di patate dolci. Sbattere leggermente l'uovo rimasto, aggiungervi la panna liquida, amalgmamare e con un pennello da cucina spennellare uniformemente i bordi della torta. Rimettere in forno e far cuocere dai 30 ai 40 minuti, fino a quando il ripeno sarà sodo. Far raffreddare su una gratella. Servire tiepido o a temperatura ambiente, decorato con un ciuffo di panna montata. 

Note mie

Si tratta di una preparazione tipica del Sud degli States, che è tradizione preparare per il Ringraziamento: quindi, aspettatevi sapori insoliti- e qui ci aggiungo un "finalmente", d'ufficio, visto che di cucina americana inchiodata ai soliti gusti non se ne può più. Per molti versi, ricorda la pumpkin pie, a cui si avvicina moltissimo anche nell'aspetto: ma, di nuovo, il riferimento è a sapori inusuali, dolciastri, speziati, così lontani dai nostri che possono non incontrare il favore di tutti. Da noi, per esempio, hanno proprio spaccato i pareri in due: mia figlia che pure è l'artefice di questa torta (tutta lei, la fece), non ne ha voluto assaggiare neanche un pezzetto; mio marito, in compenso, se la sarebbe mangiata tutta. E lo stesso è accaduto il giorno dopo in ufficio: non ne è avanzata neanche una briciola, ma ho il sospetto che le mandibole responsabili di tale razzìa siano quelle di due o tre colleghi- e non di tutti quanti. 

Ciò premesso, è un'ottima torta. Molto ben equilibrata nelle consistenze e nei sapori, morbida al punto da poter essere tranquillamente servita alla fine di un pasto (nasce per questo, in effetti), assolutamente nuova se anelate agli effetti speciali. Le patate dolci si trovano un po' dappertutto (da noi, anche al supermercato) e si cuociono esattamente come le altre: acqua fredda, portata poi a bollore. Tenetevi parchi col sale, ovviamente, trattandosi di un ripieno dolce: un cucchiaino basta e avanza.


sabato 20 ottobre 2012

Elif Shafak, La Bastarda di Istanbul






Se avessi dato retta ai miei gusti e al mio istinto, questo romanzo non sarebbe mai finito negli scaffali della nostra libreria: rifuggo come la peste le scene di violenza, ancor peggio se su donne e bambini, e trovo a dir poco fastidioso che l'editoria di questi anni abbia sfruttato a fini palesemente commerciali un filone così delicato come quello del libro-denuncia o del libro-confessione. Il che non significa che non si debbano pubblicare romanzi che tocchino tematiche del genere, anzi: non c'è come la pagina scritta che abbia il potere di diffondere idee e sollecitare coscienze. Ma, mai come in questo caso, est modus in rebus: e mettersi a pubblicare tutto quello che si trova, sulla scia del meritatissimo successo di Leggere Lolita a Teheran o Il libraio di Kabul, per dire, fa un pessimo servizio: alla sensibilizzazione delle coscienze e alla pazienza dei lettori: perchè se mai c'è qualcosa che indigna di più del  sospetto che una materia così drammatica e delicata venga sfruttata a fini di lucro,  questo è vederla scritta con i piedi. Cosa che, purtroppo, succede nove volte su dieci. 

Questo, dunque, è il motivo per cui quando vedo da lontano un titolo che anche lontanamente possa farmi sorgere il dubbio che possa appartenere a questo genere, cambio reparto: devo averlo fatto anche con La Bastarda di Istanbul, a ripensarci, visto che possiedo un'edizione ultra economica, frutto di non so più quante ristampe. Ma, in questo caso, ho fatto male. E faccio pubblica ammenda qui sopra, con una rece doverosamente breve ma intensa :-), quale tocca di solito a tutti i romanzi che, in un modo o nell'altro, hanno toccato le corde del mio cuore. 

A dispetto del titolo, la ragazza di padre ignoto e di madre volutamente confusa nel mucchio delle tante zie, è una delle due protagoniste del romanzo: l'altra è una ragazza americana, figlia di una ragazzona dell'Arizona e di un armeno, sposata in seconde nozze con un turco. Nonostante le differenze culturali e ambientali, le famiglie delle due ragazze si somigliano, unite come sono da un  filo rosso di antichi rancori, che nel caso di Armanoush ha preso le forme di una delle più strazianti tragedie del secolo scorso (il genocidio degli Armeni), che qui diventa paradigma di un vivere quotidiano intessuto di piccole rivalità e di dispetti. E' un dispetto fatto alla ex suocera, per esempio, la scelta di un nuovo marito turco fatta dalla mamma di Armanoush, incapace di riprendersi dalla felare notizia del matrimonio dell'unico figlio maschio con una donna non armena; ed è una trafila infinita di dispetti quella che scandisce la vita della famiglia di Asya, ad Istanbul, tutta popolata di donne turche, dalla nonna alle sue quattro zie, visto che l'unico figlio maschio non solo ha osato lasciare la Turchia per studiare negli Stati Uniti, ma si è addirittura fermato là per sempre. In un panorama tutto al femminile, non stupisce che sia questo unico figlio maschio l'anello della catena che farà incontrare le due ragazze: Armadoush vive la sua identità di armena in modo sempre più conflittuale, soffocata dal rigore del ramo paterno e bramosa di conoscere direttamente la verità e per questo decide di partire per Istanbul, senza dir nulla a nessuno, chiedendo ospitalità alla famiglia del marito di sua madre. Che, ovviamente, è il fratello delle tante zie di Asya, che con lei ha in comune i 19 anni e il tormento della sua condizione. La prima è solare, semplice, diretta; la seconda è inquieta, seducente, tenera nel suo essere arrabbiata col mondo: diventano amiche ed iniziano assieme un viaggio nel tempo, alla scoperta di una storia di dolore, unico modo per poter sganciare le zavorre del loro passato e librarsi nell'aria pulita del loro futuro. Un cerchio che si chiude, là dove era cominciato, ma che apre ad entrambe le porte di una verità scomoda, inquietante, traumatica, a suggello di un lacerante rito di passaggio nel quale le domande troveranno risposta e la confusa incertezza di una identità celata si perderà per sempre, nella scoperta delle proprie radici e nel nuovo coraggio per affrontarle. 

Un tema così inquietante (e tre: di solito, odio le ripetizioni, ma ci son situazioni che inchiodano al vocabolario) è pericolosissimo da narrare. Perchè il rischio di finire nello splatter, nella pornografia, nella volgarità è costantemente dietro l'angolo. A meno che non si sappia scrivere, cosa che la Shafak sa fare e pure bene. Tant'è che trasporta tutta l'angoscia delle sue tematiche in un ambiente vivo, moderno, stimolante, giovane, ironico, dissacrante e la sviluppa in un romanzo, nel senso vero del termine: tanti personaggi, con i protagonisti cesellati in ogni dettaglio e via a sfumare, in una galleria di personaggi variopinti, ognuno con una fisionomia sua propria, a volte un po' troppo caratteristica, come d'altronde è inevitabile se si sceglie la via dell'umorismo. perchè- strano ma vero- in questo libro si ride. e lo si fa sullo sfondo di una Istanbul contemporanea, che morde il freno della modernità, che ci svela le sue mille facce, così differenti, così nuove, così contraddittorie, raccontate senza mai giudicare, con il distacco benevolo di chi sa amare, comprendere, perdonare. 

Grandissimo libro, davvero. 
buon fine settimana
Ale


sabato 13 ottobre 2012

Topless Oblige

Julian Followes, Snob





La rece vera e propria è più sotto. Qui, ci son solo due ricordi personali, tratti dal "libro della mia vita"- quello che non ho mai scritto e mai scriverò. Ma ogni tanto, qualcosa mi scappa...


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Aneddoto familiare n. 1

Qualche anno fa, in occasione di un breve viaggio a Venezia, avevamo soggiornato come ospiti paganti in una villa veneta. Ci aveva indirizzati lì un'amica comune e fummo accolti con grande familiarità, tant'è che ci vennero anche presentati i pro nipoti, coetanei di mia figlia, invitando i bambini a giocare insieme. La dimora che ci ospitava era il classico edificio storico gravato da spese inenarrabili, rese ancor più insostenibili dal fatto che nessun membro della famiglia avesse un impiego retribuito. E così, accanto ad opere d'arte di valore inestimabile, c'erano dispenser di sapone pieni d'acqua insaponata; nel cestino del pane della colazione, di manifattura rinascimentale, stazionavano gli avanzi della sera prima; e alle estremità delle decine di bracci dei giganteschi lampadari che adornavano i soffitti, esalavano una tremula luce solo tre o quattro lampadine a basso consumo energetico. Una vita di relazioni trasversali mi aveva abituato a questa coabitazione, per cui non ci avevo fatto troppo caso: non così mia figlia, che si trovava allora per la prima volta a contatto con un ambiente fino ad allora mai frequentato. Tant'è che la sera, alla nostra domanda su come avesse trascorso il pomeriggio con i suoi ospiti, lei aveva risposto, dubbiosa, che anche se avevano la sua età, erano "strani". 
"Non sono 'strani', Carola- le avevo detto- sono solo nobili".
Ed ero partita con una lezione sulle classi sociali, spiegandole che oggi certe differenze non si sentono più, ma che ancora esistono ed è per questo che ci sono bambini che pportano nomi antichissimi e che vivono in case che per noi sono musei e che studiano la storia sulle pareti dei loro saloni, mentre noi la studiamo sui libri. 
La creatura aveva ascoltato, attenta, tutte le mie parole, e alla fine aveva concluso, seria: "ho capito, mamma. Loro sono nobili- e noi siamo ricchi"

Aneddoto familiare n.2

L'amica nobile (e ricca, lei sì,  per davvero) dona parte degli archivi di famiglia ad un ente pubblico e mi invita alla cerimonia di consegna. A pranzo, capito in una tavola tutta blasonata e oltre a scoprire che esiste un'altra geografia, fatta di ducati, contee e principati, vengo introdotta all'iniziazione all'ingresso in società dei giovani rampolli, che prevedono corsi di ballo a Parigi, tenuti dalla ex principessa russa, bis bisbisnipote dello zar, battute di caccia alla volpe ed altre amenità del genere. Tempo cinque minuti mi ambiento e dopo un po' vengo assorbita nelle conversazioni, al punto che la mia vicina mi confida che anche lei ha un figlio di 4 anni, la stessa età della mia (di allora). 
"Potremmo presentarli, cosa le pare?"
"Molto volentieri", deglutisco io
"Quante lingue parla, sua figlia?"
"Mah... sa... a quattro anni... è bilingue", mi salvo in corner, graziata da una bisnonna che le parla solo in genovese e un nonno che non è da meno.
"Ah". Moto di disappunto, di chi se ne aspettava almeno tre e tutte fluenti. "E cosa fa?"
... come, cosa fa? a quattro anni, cosa fa? cioè, mi chiedo: cosa fa, una bambina di quattro anni? gioca, no?  e così, mi industrio e annaspo " mah... nuota (e faccio finta di non vederla nei 3 cm di profondità della piscina comunale, circondata da paperelle e palline galleggianti), scia (e di nuovo, chiudo gli occhi sull'abbonamento giornaliero dimenticato sotto mucchietti di neve, che non voio sciare, voio fale il pupazzo), balla (questo, almeno, è vero. Pure il valzer di Strauss, che a casa nostra per tradizione familiare è la musica del ballo di Cenerentola)..."
Il disappunto si è impadronito del volto della mia commensale
" e poi?"
Mi arrendo
"E poi, basta: ha quattro anni"
Sopracciglia inarcate, labbra tese, respiro profondo - e poi: 
"il mio, imbalsama"
Mi strozzo col consommè
"come ha detto, scusi"
"Imbalsama- me lo ripete, sillabando, bontà sua- "Im-bal-sa-ma. Gli uccelli morti, che trova nei viali della tenuta. e' la tradizione di famiglia, e lui la persegue sin d'ora. Dice che sua figlia potrebbe trovarlo di suo gradimento?"


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Lo sapevate voi che Julian Fellowes è lo sceneggiatore di Downtown Abbey e, qualche tempo prima, pure di Gosford Park, che a lui fruttò un Oscar e a me una lite memorabile con il non ancora marito, colpevole di essersi annoiato di fronte ad un film che per me era l'equivalente di un giardino di delizie e per lui un concentrato di bromuro?
Io no. 
Tant'è che quando ho comprato questo libro, l'ho fatto solo perchè convinta a)dal titolo; b)dalla casa editrice; c) e dalle promesse dei risvolti di copertina, che preannunciavano una satira pungente della high class britannica, scritta con una penna impietosa e graffiante. L'ho letto di un fiato e mi sono pure divertita, tanto da inaugurare la catena del prestito ai cari amici vicini, a consigliarne la lettura ai lontani e a pensare di parlarne anche qui sopra, prima o poi. 

Partiamo dalla trama, che è leggera e divertente: Edith Lavery  è la figlia di un revisore di conti e di una mamma che deve la sua formazione a Point de Vue, Sunday People e Araldica Oggi e che, al pari di tutte le mamme di questo mondo, desidera vedere la figlia sistemata, meglio se sotto un velo di tulle lungo 15 metri che copre metà della passiera di Westminster Abbey e un blasone nuovo di trinca come regalo di nozze della suocera. Da brava figlia, Edith fa di tutto per far felice sua madre e ci riesce alla grande, facendo capitolare nientemeno che lo scapolo d'oro più ambito dal parterre delle nobili fanciulle da marito, figlio di una inossidabile rappresentante della vecchia guardia di una classe sociale lasciata a combattere da sola contro chi attenta alla sua essitenza- vale a dire gli esattori delle tasse e i parvenu. Edith ce la fa, dicevamo, ma una volta assurta al ruolo di contessa- toh che strano- non riesce a reggerne lo stile di vita. Evidentemente, nella libreria della mamma mancavano le biografie di Lady D. e forse sarebbe stato meglio un ripassino veloce delle interviste della principessa sul bel caratterino dei suoceri e sul nitrito di Camilla, con tanto di ferma-immagine sullo sguardo perso nel vuoto e il "dammi una lametta che mi taglio le vene" in sottofondo. Ma Edith non è Diana Spencer e suo marito ha in comune con Charles solo il nome: tant'è che è lei a lasciarlo, per l'attore belloccio e altrettanto ambizioso, abile a succhiare popolarità dallo scandalo e palesemente infastidito dall'amore che lei prova per lui. Lascerà anche questo, constatato che l'orario continuato dalle 9 alle 5, con pausa pranzo spesa nel supermercato di fianco all'ufficio non è quella che fa per lei, riuscendo nella mission impossible di riconquistare il marito, sgominando la corazzata Potemkin della suocera e delle sue amiche, prossima sposa prescelta inclusa. Da lì in poi, Edith sarà la moglie aristocratica perfetta, con tutti i requisiti adatti per entrare di diritto nella galleria dei ritratti di famiglia, nel vestibolo: cani, cavalli, magione avita e pure il figlio illegittimo, a coronare uno stile di vita consolidato e intramontabile. 

Fin qui la trama- che però è ingannevole: perchè ad essere protagonisti di questa storia non sono nè Edith, nè Charles nè la voce narrante, l'amico di famiglia del conte di Broughton che però sceglie la via del palcoscenico, anzichè quella della campagna inglese, bensì l'intera classe sociale a cui il titolo del romanzo si ispira: gli Snob sono Edith e il suo entourage, ma a campeggiare sulla scena sono quelli che la nobilitas ce l'hanno- e pure nel profondo delle ossa. Fellowes li sceneggia, ancor prima che descriverli, con un acume a cui nulla sfugge, dagli odiosi nomignoli alle parche mense, dalle stanze fredde alle tubature gelate, da privilegi di casta gelosamente custoditi- e non c'è passare de tempo che tenga. E tuttavia, Fellowes non li condanna: ce li racconta, ce li rappresenta, non ci nasconde nessuna delle loro magagne, ma senza mai affondare la lama del coltello fino in fondo. Per chi lo ha paragonato a Jane Austen (e sono in tanti, ad averlo fatto) questo è un difetto, pure imperdonabile. Ma per me, che della Austen vedo poco o niente, a parte l'analogia dell'ambientazione sociale, è quasi un pregio. Come dire, non vogliamo troppo male a questi nobili che, per quanto deprecati e bistrattati, hanno dimostrato di saper resistere a tutto e di saperlo fare con lo stile che da smpre li ha contraddistinti e che, nel caso della nobiltà britannica, si tinge di misura, intelligenza e sense of humor. 
Piuttosto, là dove la penna di Fellowes è intinta in un inchiostro più velenoso, è nella resa dell'ambiente televisivo: è un particolare che è stranamente sfuggito ai recensori del romanzo, ma è proprio nei ritratti degli attori, nel mettere a nudo una mediocrità che si pasce di scandali e di opportunità da sfruttare e un egotismo inversamente proporzionale al talento che Fellowes spara a zero: lo fa con la solita sagacia, ma con un minore distacco, probabile spia di un coinvolgimento maggiore, che spezza la punta alle sue frecce, con qualche colossale "cilecca". 
Recensori più attenti di me hanno anche notato alcuni grossolani errori di tipo narratologico: la storia è raccontata in prima persona- focus interno, per quelli che se ne intendono- e quindi non si spiegano certe descrizioni, riferite ad episodi avvenuti lontano dagli occhi del narratore, ma che lui invece racconta con dovizia di particolari, come se fosse stato presente. 
Quisquilie, se posso permettermi. Esattamente come il paragone con la Austen, con Waugh, con Woodhouse e con altri immensi fustigatori di epoche e di costumi. Followes non è nulla di tutto questo, ma non per questo è autore da trascurare, anzi: il messaggio di Snob- vale a dire, che nobili si nasce- è forte e chiaro e mai così attuale, all'indomani dello scandalo da tabloid dell'ultimo scivolone della Casa Reale britannica, ad opera di una deliziosa parvenu che non ha resistito a togliersi il pezzo di sopra del bikini davanti ai raggi del sole della Provenza, dimenticando di essere l'erede al trono d'Inghilterra.
Come dire, Jane Austen lasciamola dov'è. E i reggiseni, anche.




sabato 6 ottobre 2012

Cinquanta Sfumature di....

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Rompo il riposo del Sabato, un po' per l'insonnia, un po' perchè sarebbe anche ora di riprendere le buone abitudini delle rece e un po' perchè era da parecchio tempo che non mi capitava di trovarmi avvinta come l'edera ad un romanzo che, stando alla quarta di copertina, non sarebbe mai dovuto finire nel carrello della mia spesa. Anzi, a dirla tutta, l'unico motivo per cui l'ho comprato è l'amore che mi lega a questa casa editrice, che con Amber inaugura una nuova collana, dedicata ai best seller di un tempo neppure troppo lontano, che oggi non s'usano più (e poi un giorno magari parleremo anche di un'altra di quelle cose che oggi non s'usano più, di quando i libri si acquistavano solo perché Einaudi o Sellerio e oggi invece bisogna leggersene metà, in bilico fra gli scaffali,  augurandoti che l'attacco di mal di schiena ti aggredisca quando sei arrivata almeno a capire se vale la pena di aprire il portafogli  o meno- ma non divaghiamo)

Nessun requisito per piacermi, dicevo, a cominciare dal paragone con Via col Vento, libro che nè possiedo nè ho mai letto (e a questo punto è inutile che aggiunga che neppure ho visto il film): non mi piacciono i polpettoni anni Quaranta, non mi piacciono gli stereotipi e delle buone maniere, francamente me ne infischio. Esattamente come mi sarei infischiata di questa Amber presentata come l'anti- Rossella, paladina di un' "emancipazione" conquistata a colpi dell'unica arma femminile che preferirei veder sepolta viva, anzichè trovarmela sulle prime pagine dei giornali un giorno sì e un giorno anche, magari associata a minorenni e borse di Gucci, ma tant'è: il libro è finito nella borsa e poi sul comodino e da quel momento lì non ce n'è stato più per nessuno, almeno fino a quando non sono arrivata in fondo alle quasi 900 pagine di una storia che mi ha tenuta incollata al romanzo come non mi succedeva da tempo

L'epoca, anzitutto: non quella dell'ambientazione della storia, ma quella in cui essa venne pubblicata. Siamo nel 1944, negli Stati Uniti- e nel 1945, in Gran Bretagna e nel 1948, in Italia- negli anni della ricostruzione, della miseria, dei sacrifici, in nome di un passato che non si voleva mai più rivivere e di un futuro che si annunciava gravido di opportunità e di conquiste sociali. Un'epoca di grande fermento, insomma, da cui le donne non erano certo immuni, anzi: l'esperienza della guerra, che le aveva obbligate a supplire gli uomini al fronte, in ruoli tradizionalmente maschili, aveva dato loro una nuova fiducia nelle capacità di un genere condannato da secoli ad una posizione di secondo piano. Tuttavia, la mentalità comune le voleva ancora inchiodate ad un destino stereotipato, sordo alle loro inclinazioni, ai loro desideri e alle loro aspettative e quanto più serpeggiavano questi fermenti, tanto più forte era la repressione, affidata anche a forme di persuasione più o meno occulta, che appiattivano l'immagine della donna "per bene" su canoni di comportamento omologati e intrisi di retorica e di moralismo. 
Ovvio che il "domani è un altro giorno" di Rossella O' Hara apparisse come il massimo della ribellione. Meno ovvio che, negli stessi anni, avesse preso a circolare anche un romanzo che oggi farebbe apparire le Cinquanta sfumature di grigio poco meno che ombre sottili, ma che all'epoca fece gridare allo scandalo mezzo mondo: non solo fu bandito da tutte le librerie di Boston, ma fu anche messo all'indice in 14 Stati e considerato responsabile di "70 riferimenti all'unione carnale, 39 a gravidanze illegittime, 7 ad aborti, 10 scene in cui le donne si spogliavano davanti a uomini con cui non erano sposate e una cinquantina di scene variamente pruriginose", come ricorda la Aspesi in una bella recensione su Repubblica. Sempre la Aspesi, ricorda gli ammonimenti del Production Code, il cosiddetto Codice Hays, una sorta di decalogo che vegliava sul cinema di quesgli anni, con l'intento di promuovere comportamenti edificanti nella società americana (e vietando, pertanto, i matrimoni fra persone di razze diverse, quale massimo esempio di edificazione morale, tanto per dirne una, oh yeah): guai a fare di Amber un film, si disse. E difatti, neanche un anno dopo, uscì nelle sale la versione cinematografica del libro, talmente "candeggiata", però, che non se la filò nessuno, a differenza di quanto era accaduto, pochi anni prima, con la premiatissima coppia Brent&Rossella. E così, di lì a poco, anche la fama del romanzo si spense, e Amber fu destinata all'oblio,  dimenticata sul fondo delle vecchie credenze o celata da innocenti copertine dalle abili mani delle nostre nonne. 

Ci son volute due generazioni a riportarlo in auge, come ricorda, in questa edizione Barbara Taylor Bradford, che trovò il romanzo proprio in un cassetto della cucina di sua nonna. Al di là delle facili battute sul DNA, resta il fatto che questo libro abbia segnato un'epoca e che, solo per questo, non meriti di essere dimenticato. 
Da qui a leggerlo solo come testimonianza di un periodo, però, ce ne passa: perchè, come dicevo all'inizio, il romanzo scorre che è un piacere, grazie ad una trama ricca di colpi di scena e ad una scrittura assolutamente felice: l'autrice, Kathleen Winsor, aveva molti tratti della sua eroina, quanto meno stando alla sua biografia, nella quale i matrimoni si succedono come grani di un rosario, dal primo, appena diciassettenne, con un compagno di università, al più famoso, con il jazzista Artie Shaw (quello di  e di Lana Turner e di Ava Gardner, a cui, ironia della sorte, aveva proibito la lettura di Amber, ben prima di sposarne la sua autrice); in seguito, ci furono l'avvocato che ne aveva curato un divorzio e finendo in gloria con un miliardario amricano, che la proiettò nella mondanità del jet set dei favolosi Anni Cinquanta a stelle a strisce.  Per quanto strano possa sembrare, però, il marito a cui la Winsor fu più debitrice fu il primo, il meno ricco e il meno famoso: è a lui infatti, studioso di storia inglese, che si devono i germi di quella passione per il periodo della Restaurazione che, assieme ad Amber, è il vero protagonista del libro. A detta dell'autrice, lei lesse quasi 400 tomi sull'argomento- e in tutta onestà, non c'è ragione di dubitarne: la precisione storica è puntuale, capillare, al limite del maniacale, e la si apprezza sia nei grandi affreschi della politica di quegli anni, sia nella ricostruzione degli ambienti e dello stile di vita dei tempi, descritti in modo attento e minuzioso: dagli abiti ai menu, dagli arredi alle acconciature, chiare pennellate che contribuiscono a creare un quadro storico di rara precisione, in un romanzo dichiaratamente "femminile" come questo. L'Inghilterra qui rappresentata è quella del dopo Cromwell, del ritorno degli Stuart a palazzo, nella persona di quel Carlo II bello e impossibile, che trasformò Whitehall in un bordello di lusso, fra intrighi, festini, amori cortigiani e tutto quanto fa Olgettina di lusso. Ma è anche la Londra della peste, del Grande Incendio, del Teatro del Re che apre alle prime attrici donne (l'ascesa sociale di Amber inizia proprio dal palcoscenico), della miseria e del lusso, dei banditi e degli usurai, degli astrologi e delle cameriere personali, del netto contrasto fra la salubrità della vita di campagna e i miasmi della vita londinese,  da cui la Corte, naturalmente, è la meno immune di tutti. 

In mezzo, c'è Amber,frutto di una nobile colpa,  ma cresciuta in campagna- la madre, morendo di parto, la affidò ad una contadina- che a sedici anni fugge aggregandosi ad un gruppo di cavalieri di passaggio, folgorata dall'amore per Bruce Carlton, bello, nobile e irresistibilmente bastardo, che le dice da subito quello che ogni donna emancipata vorrebbe sentirsi dire- e cioè che ne farà uno strumento di piacere, ma il matrimonio, mai e poi mai. Amber si adegua e, dopo un primo sbandamento iniziale, capisce che il vero segreto per l'ascesa sociale non è concedersi tout court, ma concedersi all'uomo giusto. Inizia quindi una trafila di "uomini giusti" che, scalino dopo scalino, la porterà a diventare la favorita del re, con tanto di ducato, palazzo nobiliare in città e pied à terre a Whitehall e figli bastardi d'ordinanza. Il tutto senza mai dimenticare lord Carlton che, nel frattempo, avrà mantenuto fede alle promesse, facendo fortuna nella pirateria legalizzata (corsari, si chiamavano), accumulando una flotta ed ingenti ricchezze, prendendo un prudente indirizzo americano e sposando un'altra, più giovane, più titolata e più ricca, di cui, orrore degli orrori, si professa pure innamorato. Questo non gli impedisce di divertirsi con Amber, seppur controvoglia, e di portarle via il primo figlio, il cui destino di futuro Lord Carlton gli impone di essere allevato da una madre come si deve- e pazienza se è quella Lady Carlton che, non paga di averti portato via tutto, si aggiudica anche questa posta. 

Sia chiaro: Amber è tutto, fuorchè una vittima. Si prende gioco di chicchessia, si pasce di intrighi, si vende al miglior offerente, senza che questo le provochi il minimo senso di colpa. E' una donna attenta solo alle apparenze, scaltra, pettegola, doppiogiochista e chi più ne ha più ne metta, tanto che, a tre quarti del romanzo, finisce per essere antipatica anche alla sua autrice: ne è prova il finale beffardo, ancor prima che ironico, a compimento di una condotta costellata di scivoloni plateali, tanto più sorprendenti quanto più riconducibili ad una che sulla scaltrezza e sulla padronanza di sè si è costruita il conto in banca. Ma si vede che, alla lunga, certi comportamenti stancano: la Winsor è sublime, nel non farsi mai sfuggire un giudizio morale e il finale è aperto proprio su questo, ancor prima che sulla trama: non solo nn sappiamo che cosa succederà di lei, ma neppure sappiamo che cosa di lei pensi la sua stessa autrice: il che, a ben guardare, è ciò che rende lieve una materia che leggera non è, proprio per niente.


buon fine settimana
Ale

mercoledì 26 settembre 2012

September Starbooks: tiriamo le somme?

starbooks settembre 2012


Seguire lo Starbooks è un po' come leggere un libro giallo: si parte da una situazione di calma apparente, si va avanti a suon di colpi di scena e poi, alla fine, si mettono assieme gli indizi e si tirano le somme: ovvio che lo scopo non sia quello di trovare l'assassino (anche se qualche istinto omicida, ogni tanto, lo abbiamo), ma solo quello di recuperare le ragioni per cui il libro del mese dovrebbe o meno far parte della vostra biblioteca, secondo lo spirito di questo progetto che- ripetiamo- prevede che si vada oltre le copertine dei testi di cucina e si provino sul campo alcune ricette, per verificarne la reale fattibilità.

Contrariamente al solito, però, stavolta abbiamo davvero poco da dire: perchè individuare il lettore tipo di un libro come quello in esame, più che difficile, potrebbe anche suonare offensivo: e se ci avete seguito fin qui, saprete già dove voglio andare a parare. 

Partiamo dai pregi, o presunti tali: la grafica e il tema sono estremamente accattivanti. Non così contemporanei come si vorrebbe credere (il cartonato, la foto dall'alto, lo still life che vorrebbe far tanto "sono uscita com'ero per andare a comrare due cosine al mercato", li abbiamo già visti e apprezzati anni fa, con i libri di Jamie Oliver, tanto per dire il primo che mi viene in mente). Nonostante questo- o forse, propri per questo, restano  comunque capaci di attirare il lettore attento a queste cose; lo stesso vale per le labels (ai miei temppi, si chiamavano "etichette") e per il carattere del testo, molto morbido, molto trendy, inevitabilmente obsoleto, che fa ogni volta centro nel portafoglio di chi scrive. 
Anche l'inserimento dei disegni - tutti autografi della khoo- vorrebbe essere un salto in avanti verso l'ultima moda in fatto di grafica, vale a dire la contaminazione fra le arti. Al di là dei gusti personali (per me, per esempio, son troppo leziosi: l'unica cosa che ho pensato, vedendoli, è che di sicuro la Khoo è meglio come cuoca che come designer), collaborano al confezionamento di un libro importante, di quelli che non passano inosservati sugli scaffali delle librerie e provocano un improvviso prurito alle mani, che passa solo una volta che lo si prende in mano e lo si porta a casa. 

L'altro aspetto interessante è il tema: la cucina francese, proposta in forme semplificate. E' appena uscita l'edizione italiana, per i tipi della Luxury Books, e questo è uno dei punti chiave della comunicazione pubblicitaria: la semplificazione di ricette oggettivamente complesse che la Khoo rende accessibili a tutti. 

Ora, so di sconfinare in altri campi, ma se mai c'è un termine che in questi anni abbia visto maltrattare il suo significato, fino a ridurlo al suo esatto opposto, questo è proprio "semplicità". Perchè in origine "semplice" aveva un'accezione positiva: richiamava alla mente concetti più alti come l'onestà, la trasparenza, la sincerità e la pulizia e, nel contempo, ne respingeva gli opposti: nessuna falsità, nessuna scorciatoia che non fosse alla luce del sole, nessun maneggio, nessun imbroglio. 
Oggi, invece, si spaccia per "semplice" tutto quello che è trucco ed inganno e dispiace notare che questo accade soprattutto in cucina, che è il luogo in cui, per antonomasia, si rifugge dalla sofisticazione, anch'essa intesa nel senso più stretto del termine: è "semplice" fare una crostata con la pasta frolla del banco del supermercato, è "semplice" usare prodotti precotti, è "semplicissimo" aprire una busta di pasti surgelati e servirla ai commensali come se l'avesse preparata la padrona di casa: la quale, per inciso, ci crede sul serio. altrimenti, non si spiegherebbero gli oltre due milioni di copie vendute dei libri di Benedetta Parodi che di questa nuova idea di "semplicità" è la indiscussa e fortunata interprete, almeno qui da noi, e i peana di ringraziamento che le si innalzano ogni giorno, "perchè lei sì che ci ha insegnato a cucinare". 

Mutatis mutandis, la Khoo fa lo stesso: perchè è facile "semplificare" i lievitati, quadruplicando le dosi di lievito; è facile "semplificare" le zuppe, scaldando sul fuoco prodotti in scatola e surgelati; è facile "semplificare" la cottura del petto d'anatra, aumentando a dismisura i tempi della permanenza sui fornelli. Ma pretendere, da queste premesse,   di dimostrare di essere riusciti ad abbassare la cucina francese ai livelli di tutte le massaie è una mission impossible, almeno per quelli che sanno distinguere la differenza fra le verdure dell'orto e quelle della fabbrica e che hanno anche il coraggio di dire che le prime, toh-che-strano, sono infinitamente migliori delle seconde. 

Il problema, a ben guardare, è tutto qui- e checché se ne dica, ci riguarda anche da vicino: ha senso esaltare un libro che sceglie di battere questa strada, rinnegando le ragioni del gusto e quelle della salute? Ha senso rinunciare a priori ad accrescere le proprie capacità e le proprie conoscenze, in nome del conforto di un livellamento che va inevitabilmente sempre più in basso? E vado oltre e mi chiedo: possibile che  le papille che  fanno apprezzare le infinite sfumature di un semplice assaggio di una creazione stellata o di un prodotto a km zero siano le stesse che portano ad esaltare The Little Paris Kitchen come il libro della nuova svolta della cucina francese, dopo The Mastering Art of French Cuisine?

Mentre ci pensate, fatevi un giro dalle altre figliole dello Starbooks e dalle loro creazioni, con considerazioni (e smoccolamenti) included. Noi chiudiamo qui l'avventura di Settembre e vi diamo appuntamento a fine mese, per il vincitore dello Starbooks e al secondo mercoledì di Ottobre, per il nuovo libro del mese. 
Grazie per averci seguito fin qui




Araba: Crème Brulée
Ale Only kitchen: Millefeuille aux pommes
L'Apple Pie di Mary Pie: Magret de Canard aux Framboises
La Gaia Celiaca: Tarte Flambée
Menuturistico: Oeufs en Meurette, qui sotto




OEUF EN MEURETTE

Sono di corsa anch'io: per ora, vi metto la ricetta e a breve le mie considerazioni


oeufs

per 4- 6 persone
30 g di lardo o pancetta affumicata a cubetti
1 cipolla, sminuzzata finemente
1 carota, sminuzzata finemente
1 gambo di sedano, sminuzzato finemente
30 g di burro
30 g di farina
500 ml di brodo di vitello o di manzo, tiepido
1 cucchiaio di concentrato di pomodoro
1 bouquet garni (1 foglia di alloro, 10 grani di pepe, 5 rametti di prezzemolo, 2 rametti di timo)
175 ml di vino rosso
4 uova fresche


 Far soffriggere la pancetta e le verdure, in padella, a fiamma media, fino a quando non diventano dorate. Con una schiumarola, toglierle dalla padella, facendo attenzione a lasciare quanto più grasso possibile sul fondo. Sciogliere il burro nel grasso della padella, aggiungervi la farina e mescolare di continuo, fino a quando il composto non prenderà il colore della Coca Cola (questo è quel che si dice un roux scuro) Abbassare la fiamma al minimo e versase lentamente il brodo tiepido, mescolando energicamente con una frusta. Una volta incorporato il brodo, aggiungere il concentrato di pomodoro e il vino  e mescolare fino a quando non si è sciolto. Rimettere in padella le verdure e la pancetta, aggiungere il bouquet garni e far sobbollire lentamente per 15 minuti. Passare al setaccio, per ottenere una salsa morbida e liscia come la seta. Assaggiare ed eventualmente aggiustare di sale

Riempire d'acqua una larga padella della profondità di 8 cm e portarla a bollore. Sgusciare singolarmente le uova in ramequin  o tazzine, dare una vigorosa mescolata all'acqua bollente, acidulata con un poco di aceto e versarvi le uova, una dopo l'altra. abbassare la fiamma e far sobbollire, fino a quando il tuorlo sarà morbido ma consistente. Scolare con una schiumarola e servire con fette di pane tostato e la salsa al vino, sopra e tutto intorno

mercoledì 19 settembre 2012

Lo Starbooks di Settembre: Rachel Khoo, My Little Kitchen in Paris (Soupe au Pistou)

soupe au pistou




La Soupe au pistou è il minestrone alla genovese che parla francese: nizzardo, per la precisione, visto che è a Nizza e dintorni che si consuma abitualmente questa zuppa, non a torto celebrata come una delle glorie nazionali, assieme alla socca e alla pissaladiére. Le analogie con il nostro minestrone, però, sono palesi e vanno dalla massiccia presenza dei legumi all'assenza di qualsiasi rigore nella selezione degli ingredienti, visto che, più che gli accademici, son le stagioni a dettar leggi. Non stupitevi, quindi, se vi imbatterete ora in una zuppa con prevalenza di piselli e ora in un'altra, con tanto pomodoro, entrambe presentate come le uniche e inimitabili: la cucina povera si nutre di quello che c'è, come ben sanno anche i cugini provenzali a cui, per ovvie ragioni di vicinanza,  noi Genovesi ci sentiamo più imparentati che con tutti gli altri. 
Ma il vero trait d'union che lega la Soupe au pistou al minestrone è la presenza della salsa al basilico: un "filo verde", per così dire, che imprime ad entrambe le minestre quell'impronta inconfondibile, di fronte alla quale i palati deboli battono in ritirata e il resto del mondo si inchina: perchè se è vero che il profumo del basilico è cosa che riconcilia col mondo, è innegabile che dia il meglio di sé in unione con l'aglio e con l'olio- e se son buoni, tanto meglio per tutti.
Questa alchimia, da loro si chiama pistou e, una tantum, ha un pater certus nel nostro pesto: furono proprio i Genovesi emigrati in Provenza nel corso dell'Ottocento a far conoscere i fasti della loro salsa ai loro ospiti che la rielaborarono in una versione semplificata, del tutto priva di  pinoli e di altra frutta secca: strano ma vero, rinunciarono anche al formaggio, che resta un complemento indispensabile di questa salsa, ma  solo  come aggiunta finale, ad insaporire l'intero piatto. E nacque così il pistou e da qui tutti le ricette che annoverano questa salsa come accompagnamento, in mezzo alle quali spicca per doverosa fama e innegable bontà proprio questa zuppa.
Ovvio quindi che non potesse mancare in un'opera come quella di Rachel Khoo , che della cucina di Francia vuole essere la nuova espressione, in chiave  contemporanea- e quindi più semplice, più fresca, più lieve. E altrettanto ovvio che fra tutte le ricette qui raccolte, l'occhio dell'unica genovese del gruppo fosse irresistibilmente attratto proprio da questa. Meno ovvie le reazioni al risultato finale, anche se era bastata una prima lettura a spegnere ogni entusiasmo. Ma andiamo con ordine e partiamo dalla ricetta:

soupe au pistou


Soupe au Pistou 

3 cucchiai di olio d'oliva
2 cipolle affettate
4 spicchi d'aglio, ridotti in pasta
1 rametto di timo
2 foglie di alloro
4 cucchiai di concentrato di pomodoro
2 carote, a cubetti
2 zucchine, a cubetti
200 g di fagiolini
1 scatola da 400 g di fagioli bianchi, tipo cannellini, scolati e asciugati
2 litri di acqua bollente
1 cucchiaino di sale
un pizzico di zucchero
pepe
100 g di pastina
200 g di piselli, freschi o surgelati

per il pistou classico
1 mazzo di basilico
3 spicchi d'aglio
3- 4 cucchiai di olio EVO

per il pistou vietnamita
1 mazzo di basilico vietnamita
1 gambo di lemongrass, tagliato grossolanamente
mezzo peperoncino rosso, privato dei semi
5 cucchiai di olio di semi di girasole


Procedimento:

per fare il pistou, basta semplicemente pestare tutti gli ingredienti, fino a ridurli in pasta (o usare un mixer)

Per la zuppa, scaldare l'olio d'oliva in una grande padella. Aggiungere le cipolle e l'aglio e far cuocere a fuoco lento, mescolando di tanto in tanto, fino a quando saranno morbide e trasparenti. Aggiungere il timo, le foglie d'alloro, il concentrato di pomodoro, le carote e gli zucchini, poi cuocere per 15 - 20 minuti o fino a quando le verdure saranno 'al dente' (tenere, ma ancora un po' croccanti). Aggiungere i fagiolini e i fagioli assieme all'acqua bollente e portare a bollore, poi unire la pasta e i piselli. Cuocere per 10 minuti o fino a quando la pasta sarà al dente. Togliere il rametto di timo e l'alloro, aggiustare di sale e pepe, aggiungere lo zucchero e servire immediatamente con una cucchiaiata di pistou.

soupe au pistou



Come dicevo prima, la soupe au pistou è espressione della cucina povera, tanto negli ingredienti quanto nella tecnica. Non esistono zuppe che non riescano, a meno che non sappiate neppure accendere il fuoco. E quindi, secondo le aspettative, anche questa zuppa è riuscita e pure in meno di mezz'ora: verdure tenere, qualcuna addirittura già spappolata, e un bel profumo di pistou ad annunciare che la cena era in tavola, senza bisogno di sgolarsi in alcun modo.
Il punto, però, è un altro- ed è un punto importante, che spesso rischia di passare in secondo piano, specie in questo mondo virtuale, dove l'immagine è tutto. Vale a dire, la prova del gusto.
Se avete letto con attenzione la lista degli ingredienti, sapete già dove voglio arrivare: alla solita, annosa tiritera contro l'uso di prodotti in scatola o di prodotti surgelati, laddove c'è disponibilità di quelli freschi.
In sè, non li demonizzo, anzi: mi hanno salvato più di una cena e basta questo per garantire loro una stabile presenza nel mio freezer o sugli scaffali della mia dispensa. Ma un conto è ricorrere a questi ingredienti nei momenti di necessità, un altro è sostenere che sono buoni tanto quanto quelli freschi. Non lo sono, punto. E un conto è fare la donna in corriera, come sono io e mille altre,  con una professione che non ha nulla a che fare con il mondo del cibo, un altro è scrivere libri di ricette che, oltretutto, si presentano come l'esaltazione di una cucina svecchiata nei suoi fondamenti meno replicabili, in nome di quelle che oggi sono le parole d'ordine della gastronomia di tendenza: freschezza, leggerezza ed una sana e assidua frequentazione dei mercati rionali, come non manca di dichiarare la Khoo nei primi due paragrafi della sua prefazione a The Little Paris Kitchen.
E allora, mi verrebbe da chiederle, perché i fagioli in scatola, in una minestra che è l'espressione più peculiare della cucina di Provenza, la cui spina dorsale sono i profumi dei prodotti della terra? Perchè proporre i piselli surgelati, quando tutti sanno che l'unica legge a cui questa preparazione obbedisce è quella della stagionalità? E il concentrato di pomodoro, al posto del pomdoro fresco, consueto complemento del pistou nizzardo e monegasco, come la spieghiamo? Ometto gli altri "perché", per il solo motivo che son tutti consequenziali alle premesse, ma che non hanno fatto altro che peggiorare il peggiorabile: mi riferisco soprattutto alla cottura, che per ovvi motivi si è limitata ad appena mezz'ora (provate a far cuocere i fagioli in scatola per un'ora e passa) e che ha quindi impedito alle verdure fresche di sprigionare tutto il loro umore. Anche l'assegnazione degli stessi tempi di cottura alle carote e agli zucchini non sta nè in cielo né in terra, quasi come dimentcarsi il sale nel pistou. Cosa che, per altro, è stata fatta e sempre con questo stile che vuol essere minimalista e che invece scade ogni volta in una leziosaggine così stucchevole e così melensa che mi ci è voluto più di uno sforzo per reprimere la voglia di prendere The Little Kitchen e andare a barattarlo con l'opera omnia della Benedetta Parodi: scatoletta per scatoletta, almeno lei le apre con onestà.

soupe au pistou


Siccome detesto buttar via il cibo, ho riaggiustato questa zuppa con quello che avevo a disposizione, dal minipimer, per rendere omogenea la crema (le carote erano croccanti, i fagiolini quasi crudi, zucchini e fagioli sfatti) fino a due cucchiai e oltre di pistou, per dare un po' di mordente ad una cena altrimenti mortificante. Ma vi prometto che una di queste sere preparo la ricetta originale e ve la posto: se però, nel frattempo, volete provarci da soli, potete andare negli scaffali dello Starbooks, scorrere l'elenco fino alla voce CHILD, cliccare su Mastering of the Art of French Cooking e da lì, andare a vedere che meraviglia è la vera Soupe au Pistou, così come l'ha preparata la nostra amica Buccia: potrei spendere qualche aggettivo in più, ma vi assicuro che non serve: basta solo che diate un'occhiata agli ingredienti e il resto verrà da solo, appetito compreso.

soupe au pistou

Al resto della squadra dello Starbooks, invece, è andata meglio: c'è stata qualche aggiustatina in corso d'opera, qualche dose che è strabordata dagli stampi, qualche invocazione al cielo e, probabilmente, una dose di bontà di gran lunga superiore a quella che alberga nel cuore della sottoscritta, ma gli animi sono un po' più sollevati, rispetto alla volta scorsa.
Vi rimando alle loro ricette e alle loro considerazioni:

Vissi d'arte e di cucina: Nids de tartiflette
Le chat egoiste: croque madame muffins
Araba felice: Pain Brié
La Apple Pie di Mary Pie: Sabayon aux Saint Jacques
Andante con gusto: Soufflé au Fromage
Ale only Kitchen: Gratin de choufleur avec une chapelure aux noisette
La Gaia Celiaca: Poulet au citron et lavande


Per il Giudizio finale :-), invece, ci vediamo il prossimo mercoledì.
Buon Starbooks
Ale

martedì 3 luglio 2012

Il Must Have dei libri di cucina- i 10 titoli imperdibili nello scaffale ideale

starbooks


Già che ho un po' di tempo per smaltire qualche richiesta- e visto che questa è LA richiesta per eccellenza, eccovi l'elenco dei testi di cucina che dovrebbero far parte di una biblioteca ideale. Mi limito a 10 e ai conifini della nostra Penisola- e la prossima volta, affrontiamo il resto del mondo. Sul fatto che si tratti di una lista personale, basata cioè sui miei gusti e i miei orientamenti in materia e lasci quindi il tempo che trova, nella blogsfera e dintorni, spero di poter sorvolare, dandolo pacificamente per scontato. Anzi, se vi va di allungare l'elenco, con i vostri contributi, siete, al solito, i benvenuti


1. ARTUSI., P., La Scienza in Cucina e l'Arte di Mangiar Bene. Ovvero, quando la banalità della citazione è essa stressa tributo di grandezza. Che vi piacciano o meno le sue ricette, che vi piaccia o meno il suo stile, che vi piaccia o meno l'impostazione grafica delle varie edizioni, l'opera dell'Artusi è una tappa obbligata, anzi: LA tappa obbligata, per la costruzione di qualsiasi libreria di cucina degna di questo nome. Prima di lui, la cucina italiana non esisteva. Esistevano decine e decine di filoni regionali, assai più peculiari e radicati di quanto non lo siano oggi, spesso sconosciuti anche ai vicini più prossimi. Ma di una tradizione italiana, neanche a parlarne, almeno fino a quando non spuntò all'orizzonte questo coltissimo figlio di un droghiere di Forlimpopoli che coniugò da sempre l'amore per le belle Lettere con quello per la cucina, coltivata nella sua casa di Firenze, dove si trasferì dopo la famigerata "notte del Passatore", foriera di sventure per la sua famiglia e anche per lui. Più che un cuoco, Pellegrino fu un cultore della cucina: e questo, per quei tempi, aveva un che di rivoluzionario. Cucinare era roba da cuoche, fare la spesa roba da serve, scrivere di cucina equivaleva a trattare argomenti vili, e la penna non poteva che essere adeguata o adeguarsi. Artusi, invece, metteva a disposizione della materia la sua cultura di letterato, la sua devozione di appassionato, il suo fervore di patriota, per giunta mazziniano. Quello che Manzoni fece con la letteratura, Pellegrino lo fece con la cucina, riunificandola e raccontandola in una lingua che fosse la stessa per tutti (di nuovo, il fiorentino), conferendo alla cucina un'identità culturale che sembrava essersi smarrita nei meandri della storia. 
Da qui a farne un'opera completa, ovviamente, ce ne passa: d'altronde, non sarebbe potuto essere altrimenti, dati i tempi e le difficoltà loro connesse. Dispiace ma non stupisce, per esempio, che la cucina del Sud d'Italia sia poco rappresentata. E che alcune regioni, come le Marche, la Sardegna e la Puglia, siano quasi del tutto trascurate, a fronte di una preponderanza della tradizione toscana e romagnola. A me, da genovese, è sempre dispiaciuto che la ricetta del nostro minestrone fosse associata agli esordi di un'epidemia di colera, per esempio. Ma, senso critico e campanilismi a parte, non si può non riconoscere a quest'opera il merito che le spetta, come spartiacque e pietra miliare di un nuovo corso della storia della cucina nella nostra penisola. Una novità, nel senso più ampio del termine- a cui fa da contraltare una nota destinata a trasformarsi anch'essa in una costante del panorama della cultura italiana, vale a dire la miopia degli editori. Dopo non so quanti rifiuti, anche parecchio umilianti, Artusi si decise a pubblicare la sua opera a proprie spese, nel 1891. Neanche a dirlo, si trattò del successo editoriale più travolgente dell'epoca, con ben 14 edizioni stampate in 20 anni: se vi sembran poche, pensate solo all'analfabetismo dilagante a quei tempi ed aggiustate il tiro su quello. Basti dire comunque che nelle case dei "primi" Italiani La Scienza in cucina e l'arte di mangiar bene fu uno dei tre libri fondamentali, accanto ai Promessi Sposi e a Pinocchio, a conferma di un ruolo culturale indiscutibile ed indiscusso. 

Ada Boni, Il Talismano della Felicità: ovvero, la risposta femminile, venata di snobismo e di buone maniere, alla bonomia di Pellegrino. e questa, sia chiaro, non è una dichiarazione a posteriori, ma un fatto arci noto, allora come ora. Tanto l'Artusi traduceva nella sua opera un sistema di ricette che rispecchiava l'ordine borghese (cito Camporesi, sia chiaro), tanto la Ada ne prendeva le distanze, mirando a rispecchiare la cucina di una classe più alta, che traduceva nella raffinatezza delle portate e dell'arte del ricevere tutta la superiorità del proprio ceto. Schermaglie sociali e puzz sotto il naso a parte, il Talismano della Felicità resta uno dei migliori ricettari di tutti i tempi, per modernità e per affidabilità. I principianti apprezzano quest'ultima, gli esperti restano strabiliati dalla prima: e tutti si godno spiegazioni dettagliate, in una prosa gradevole, che compensa la mancanza di ironia con un garbo e una chiarezza senza pari. 


Com'era, il "già che ho un po' di tempo" dell'incipit di questo post? stamattina, è tutto un "mamma!mamma!" e ora mi chiama l'ufficio. Vi metto random i titoli degli altri imperdibili- e ci torno su, le prossime volte

3. Petronilla, Ricette
4. Carnacina- Veronelli, Il Carnacina
5. AA.VV. Il cucchiaio d'argento
6. Cerini di Castegnate, Livio- Il cuoco gentiluomo
7. Gosetti della Salda, Ricette regionali italiane
8. Francesconi C., Cucina napoletana
9. Righi Parenti, La Cucina Toscana
10. Bay, A. Cuochi si diventa

a staasera, per il vincitore dello Starbooks
ale