Post datato 24 settembre 2012.
Lo riprendo ora, perche' oggi e' morto Bud Spencer e da quando vivo qui ogni occasione e' buona, per approfondire vuoti che non si colmeranno mai.
Che ci crediate o meno, a me il cinema non piace. I pochi film che guardo, li vedo in TV e sono sempre funzionali all'asse da stiro, oltre che rigorose "seconde scelte", dopo i vari Barnaby e Poirot a cui l'intera famiglia è debitrice di bucati stirati -e pure in tempo. Al cinema, invece, non vado da tempo immemorabile (l'ultima volta fu per Julia &Julie e, detto inter nos, me ne sarei potuta anche stare a casa). La spiegazione ufficiale è che il mio lavoro mi obbliga a sentir storie tutti i giorni. Sono il punto di partenza di ogni giornata, la trama su cui imbastisco tesi e controtesi, il mio puzzle quotidiano su cui spesso e volentieri mi scervello, dal lunedì al venerdì: le ascolto, le rielaboro, le studio, le interpreto e, infine, le riscrivo- e questo da quasi quattordici anni, senza interruzione. Andarmele a cercare anche nel tempo libero equivarrebbe a portarsi del lavoro a casa, anche nei fine settimana o alla sera: e visto che si son riposati anche ai piani alti- chioso abitualmente- avrò diritto anch'io a staccare un po', giusto?
Questa, dicevo, è la spiegazione ufficiale: la so a memoria, a dire il vero, perchè di tutte le scuse che ho dovuto cercare per motivare questo rifiuto, è quella che va sempre a segno. La gente si incuriosisce, quando sente parlare di fatti altrui e se faccio tanto di riuscire a portarli sul terreno confortante della mia professione, è fatta: gioco in casa, ho il conforto di copioni stracollaudati e non ho bisogno di confessare la vera ragione per cui non metto piede in una sala cinematografica da vent'anni. Pure precisi.
Perchè prima dell'inverno del '92 io ci andavo, al cinema, e pure regolarmente. Avevo anche preso il vizio del mercoledì, quando i biglietti costavano meno e per un certo periodo pure quello del lunedì, con tanto di tesserino azzurro che certificava il vizio. Leggevo le recensioni sui giornali, sceglievo accuratamente fila e posto e controllavo tutti i titoli di coda, unico ma doveroso tributo a quel dietro le quinte che mi affascinava tanto quanto le sceneggiature e l'ambientazione.
Ma poi ci fu Lanterne Rosse- e da allora, nulla fu più come prima.
Che cosa mi fosse successo, durante la proiezione di quel film, è cosa che ricordo alla perfezione, nonostante i vent'anni trascorsi. Ero entrata pimpante, ero uscita distrutta, prostrata da un messaggio diverso da quello intenzionale ma che, evidentemente, aveva toccato le corde più fragili di quel groviglio di emozioni senza filtro che ero io allora.
Tante volte ho pensato che dovrei rivederlo: mia madre me ne aveva procurato una videocassetta, ai tempi in cui riprodurre film non era così facile come oggi e non è escluso che nella cineteca di famiglia il dvd ci sia e in ogni caso procurarselo non sarebbe il problema. Mi incurioserebbe vedere se sono rimasta la stessa di allora (sotto sotto, tem di sì) o se, nel frattempo, qualcosa è cambiato. Ma rimando sempre, sospesa come sono fra il timore di dover riaprire antiche ferite o quello, altrettanto doloroso, di ritrovarmi con vent'anni di arretrati da smaltire ed una rinnovata passione da aggiungere all'elenco delle cose che non ho il tempo di coltivare come vorrei. E così, lascio perdere e mi drogo di campagne inglesi e cadaveri sparsi.
La cosa strana è che io son circondata da cinefili: lo sono mio marito e mia figlia e non passa sera che mi abbandonino al mio libro per guardarsi un film su cui discuteranno il giorno dopo, sin dal primo caffé della mattina. E, prima ancora, lo erano stati mia nonna e mio padre.
Mia nonna era del 1913 e aveva accolto l'avvento del cinema con l'entusiasmo ingenuo e fanciullesco della generazione che l'aveva preceduta: un po' come i primi spettatori della prima proiezione dei fratelli Lumiére, quelli che erano fuggiti dalla sala in preda al panico, convinti che il treno uscisse dallo schermo e li investisse tutti. Lei guardava i film senza alcun filtro, risucchiata dalla potenza del mezzo in modo tanto inesorabile quasi inevitabile e non c'era verso di staccarla dalla poltrona, ipnotizzata com'era dalla storia che si stava svolgendo sotto i suoi occhi e di cui lei era, a turno, ora la protagonista ora la spalla, con un interscambio di ruoli che, per noi che assistevamo in diretta alle trasformazioni, costituiva una sorta di spettacolo nello spettacolo, quasi sempre più imperdibile di quello vero. Quando era più vecchia ed io ero una ragazzina, aveva preso il vizio di interagire con la TV: messi da parte i freni inibitori che l'avevano trattenuta fino ad allora, protetta dalla privacy della sua camera o della famiglia, aveva preso l'abitudine di seguire un suo copione, che recitava accanto a quello degli attori. Ricordo con orrore il "prego, si accomodi, faccia come fosse a casa sua" rivolto al signor Ingalls che bussava alla porta della Casetta nella Prateria, accompagnato dalle movenze delle grandi occasioni, con lei in piedi davanti al televisore, il grembiule slacciato in fretta e messo via e il sorriso beato di chi, in quel momento, accantonava le preoccupazioni della realtà per proiettarsi nel conforto della finzione.
Mia madre raccontava che, da giovane, era peggio: ai tempi, una signora non poteva andare al cinema da sola, pena l'irrimediabile rovina della propria reputazione. E siccome mio nonno non riusciva a tenere il passo della passione, lei obbligava i figli ad accompagnarla. La prima sala cinematografica era alla periferia della città, per loro che provenivano da un piccolo paese, senza altri mezzi se non quelli forniti dalla natura: e delle caterve di pellicole viste in quegli anni, mia madre ricordava solo il mal di piedi.
Mia nonna, per contro, li sapeva a memoria e tale era la passione che aveva imparato tutti i nomi degli attori, pure quelli di quel cinema americano così glorioso e prodigo di sogni a buon mercato. Le sue pronunce erano uno spasso, per me e mia sorella bambina: il bisnonno, somigliava a "clarche gabble", il nonno era tutto "ion vaine" e ogni volta che la sentivamo prender fiato e ansimare, in puro stile Spirit of saint Louis, ci affrettavamo a tranquillizzare gli astanti che "no, davvero, non le sta venendo un enfisema: sta solo cercando di dire Humprhey Bogart"
Se mia nonna aveva gusti sofisticati, amante com'era della commedia americana e delle storie d'amore, mio papà si divertiva con i film d'azione. Di guerra, ovviamente, ma anche i grandi western del dopoguerra, le spy stories degli anni Ottanta e Novante e tutto quanto regalasse colpi di scena ed emozione, meglio ancora se accompagnati da colonne sonore degne di questo nome. The Blues Brothers, il magico Clint (sia da attore che da regista) e tutte le storie della seconda guerra mondiale, da I Cannoni di Navarone a Operazione Sottoveste sono stati il basso continuo delle serate al cinema con nostro padre. Ma, per quanti film si siano potuti condividere in tutti questi anni, nulla ha mai scalfito l'inossidabile primato degli spaghetti -western e della coppia più divertente, più scanzonata e, sotto sotto, mai veramente rinnegata di questo filone, vale a dire Bud Spencer e Terence Hill.
Il titolo del post si riferisce all'unico film in cui Bud Spencer recitò con Giuliano Gemma- ed è manifestamente asservito alla ricetta scelta per rappresentare l'intero genere cinematografico. Ma i veri idoli della nostra infanzia erano loro due, Terence Hill e Bud Spencer , tanto che, mentre i nostri coetanei si arrovellavano a ricordare i sette re di Roma o le province della Lombardia, io e mia sorella facevamo a gara a chi diceva prima tutti i titoli dei loro film, da Lo chiamavano Trinità ai Due Superpiedi quasi piatti, l'ultimo che andammo a vedere tutti assieme: in quell'anno, uscì La Febbre del Sabato Sera, che oggi ritengo uno dei film peggiori che abbia mai visto ma che all'epoca fu una sorta di rito di passaggio, dall'infanzia all'adolescenza e che, assieme a tante altre cose, si portò via pure queste domeniche pomeriggio al cinema, con mamma e papà.
Perchè era la domenica, in quegli anni, il giorno dedicato allo svago ed al riposo: il sabato libero era sconosciuto, al pari degli orari continuati, delle pause pranzo in ufficio o in palestra, della spesa a domicilio, ordinata da casa con un semplice clic. E neppure esistevano i centri commerciali o i negozi aperti nei giorni di festa: l'unica alternativa al cinema, in inverno, era il Genoa, che allora giocava di domenica e solo di domenica, una volta in casa e una fuori. Anche le auto si usavano una domenica sì e una no, a seconda di come finivano le targhe, in un'alternanza tranquillizzante che teneva a bada paure reali e riempiva le macchine altrui di bambini ed anziani, in slanci di solidarietà che oggi son solo ricordi venati di nostalgia.
La stessa con cui ripenso a questi film, che definire parodistici è quanto di più sbagliato possa venire in mente: perchè se mai qualcosa mancò, a questo genere, fu proprio la spinta intellettuale, il fine dissacratorio, la vis polemica che contraddistingue le parodie tutte. Qui, ci si prendeva semplicemente a cazzotti, con una comicità tutta gestuale, capace però di ottenere le stesse finalità catartiche di rappresentazioni ben più ambiziose e di gran lunga più pregevoli: si rideva e ci si divertiva, e questo anche perché non c'erano incertezze, né di ruolo, né di trama: i buoni di qua, i cattivi di là e non facevi in tempo a prender posto che già sapevi come sarebbe finita, con Bud Spencer e Terence Hill che avrebbero fatto trionfare la giustizia, per l'ennesima volta, scampando ai pericoli che si presentavano via via e che, nel caso di Terence Hill, comprendevano anche gli sguardi languidi delle fanciulle del west: quello che davvero contava per noi bambine che adoravamo i suoi occhi azzurri e il suo sorriso da eterno ragazzino, era che rimanesse single ed incontaminato e mai scena fu accolta con maggiore sollievo che l'addio alle bellezze mormoniche, in Lo chiamavano Trinità.
Come dicevo prima, con l'adolescenza smettemmo di andare al cinema al pomeriggio. O meglio, ci si andava, ma rigorosamente senza mamma e papà. E smettemmo anche di guardare questi film, che facevano parte di un passato da omettere, se non proprio da dimenticare, in quell'immagine di ragazze culturalmente impegnate che ci stavammo costruendo in quegli anni. Mio padre, invece, continuò a guardarli: non più al cinema, ma in televisione. Ogni volta che ne programmavano uno, non c'erano scuse per distoglierlo dal telecomando e dal divano. A forza di rivederli, ovviamente, li sapeva a memoria. E capitava sempre più spesso di sorprenderlo a sghignazzare, assai prima che cominciasse la scena, pregustando battute che ormai sapeva a memoria, ma che riuscivano ogni volta a strappargli una risata: noi lo sentivamo ridere e, di colpo, tutto tornava come allora, con me e mia sorella piccine, la mamma che chiudeva il negozio, la nonna e il suo eterno daffare e quel papà che era la nostra roccia, più bello di Terence Hill, più forte di Bud Spencer, il porto sicuro di tutte le tempeste della nostra vita.
Ovviamente, questa ricetta partecipa a Cinegustologia , il contest di Andante con Gusto, presumo fuori concorso perché il film non rientra in nessuna delle categorie prevista. Ma mi era impossibile non partecipare, per l'affetto che mi lega a quell'altra metà della mia mela che ogni giorno si rivela essere la Patty- e ancor più impossibile non farlo con questo genere di film: perchè visto che ricominciare si deve, non posso non farlo da qui.
SALAMINI COI FAGIOLI
Come dicevo qui, i fagioli si intendono rigorosamente freschi secchi: vanno tenuti a mollo una notte e poi scolati, sciacquati e rimessi in abbondante acqua fredda, meglio se in una pentola di coccio, con aglio, salvia, sale e uno o due cucchiai di olio d'oliva. Il segreto per una buona cottura è farli sobbollire a lungo, a fuoco basso, fino a quando diventano teneri. A quel punto si scolano e si condiscono, come si preferisce. Più sotto, comunque, troverete altri consigli per una cottura perfetta.
Per gli ingredienti, vado sempre ad occhio. Calcolo due salamini a testa per ogni commensale, ma vi assicuro che in casa mia ne mangerebbero anche tre, se non addirittura quattro. Lo stesso vale per i fagioli, che vanno pesati da cotti: indicativamente, son cento grammi per ciascuno, ma fra l'intingolo e tutto il resto, non stupitevi se vi verrà chiesto il bis. D'obbligo la puccetta, col pane.
Preparazione
Affettate sottilmente la cipolla e fatela imbiondire in poco olio.
Nel frattempo, in una padella antiaderente, senza altro grasso, fate saltare la pancetta, a fuoco vivo, per pochi minuti: appena avrà rilasciato il suo grasso, scolatela e aggiungetela alla cipolla. Unite poi la salvia (se vi piace, ma in Toscana è un must) e i fagioli e faate insaporire per un minuto o due a fiamma vivace. Aggiungete la salsa di pomodoro, aggiustate di sale, abbassate la fiamma e fate cuocere, fino a quando il sugo inizierà ad addensarsi.
Nel frattempo, incidete per lungo i salamini e adagiateli dalla parte incisa su una bistecchiera già calda: anche in questo caso, non utilizzate nessun grasso, che ci pensa già la carne a rilasciarne in abbondanza di suo. Lasciateli cuocere pochi minuti per parte e tirateli via quando sono bruniti fuori ma ancora al sangue: proseguiranno la cottura in padella, assieme al sugo e ai fagioli.
Uniteli al resto degli ingredienti e fateli cuocere ancora per un minuto o due, badando a che il sugo non si restringa troppo.
Portate in tavola la padella e servite, con una generosa spruzzata di pepe nero, macinato all'istante.
Note mie
Come dicevo prima, il punto di forza di questo piatto sono gli ingredienti, che devono essere freschi e di ottima qualità: il discorso vale ovviamente per la carne e i fagioli, ma include anche la salsa di pomodoro. Nelle ricette antiche, la si preparava al momento, direttamente nel soffritto di cipolla- e poi la si passava, prima di aggiungere i fagioli. Ora si tende a saltare questo passaggio, ma io dò per scontato che si usi una buona salsa, meglio se fatta in casa.
Il segreto per la cottura dei fagioli è farli muovere il meno possibile, durante la sobbollitura: tenete la fiamma bassissima e non mescolate mai. Di solito si calcolano 5 parti di acqua per una parte di fagioli (100 g di fagioli, 500 di acqua), ma anche se non siete così rigorosi non importa: l'essenziale è che non li mettiate a cuocere in due dita di liquido, che si consumerebbe nei primi minuti. A questo proposito, meglio usare pentole dal fondo spesso: il coccio sarebbe l'ideale, ma anche un doppio o addirittura triplo fondo non sarebbero male.
Se usate fagioli freschi, invece, non c'è bisogno dell'ammollo. Rendon meno di quelli secchi (una porzione, di solito, è 250 g con la buccia, contro gli 80-100 dei fagioli secchi, ovviamente senza buccia) e vogliono anche cuocere meno: cambiano quindi le proporzioni dell'acqua, di solito 1:4, ma vale sempre la solita regola: regolatevi a occhio per l'acqua e all'assaggio per i tempi di cottura: quando son teneri, son pronti (indicativamente, un'oretta, ma anche meno, dipende dalla qualità dei fagioli)
Faccio tutte le cotture separate, anche quella della pancetta, per evitare i grassi: un piatto dietetico non è -e alle calorie del maiale e dei fagioli vanno aggiunte anche quelle del pane, che senza la puccetta finale non è per niente la stessa cosa: per cui, laddove si può, si risparmia :-) In più, a titolo assolutamente personale, troppi grassi inquinano i sapori: quindi, cotture separate e insaporimento finale.
Fate attenzione a che la salsa non si addensi troppo, quando unite i salamini: lasciatela piuttosto liquida prima (o meno densa, a seconda), portandola a cottura con l'aggiunta di un mestolino d'acqua: eviterete l'effetto mappazza.
ciao
ale
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