Il post di oggi è lungo, va un po' a "spot" e si ricollega strettamente alla ricetta di Gaia e alle riflessioni che ha suscitato nella sottoscritta.
Che
sono quelle che costituiscono il basso continuo del corso dei miei
pensieri da quando vivo nella capitale mondiale del cibo e nel paradiso
assoluto del cibo di strada, in una via a metà fra il quartiere indiano
più grande del mondo e la comunità mediorientale più bella che abbia mai
incontrato, in una vita errabonda.
E cioè, che in Occidente, di cibo orientale si sa pochissimo.
E quel pochissimo lo si sa pure male.
La questione è così complessa che non può essere affrontata nello spazio di un post, per quanto lungo.
Anzi,
più vado avanti in questa mia nuova esperienza, più mi rendo conto che
il modo migliore per spiegare il concetto probabilmente è fare quello
che sto facendo io, da quando mi son rassegnata al crollo delle 2 o 3
certezze che pensavo di avere: una bella tabula rasa di tutto e un
ritorno alle origini del proprio codice alimentare, partendo dal
mangiare, ancor prima che dal cucinare.
Qui
mangio, mangio, mangio- e mangio sempre le stesse tre cose. In posti
diversi, per capire le differenze- e negli stessi posti, per fissare i
gusti.
A dirlo sembra una scemenza, a
farlo è un'operazione molto più complessa: nel senso che solo in
Occidente si può dire "chicken rice" o "biryani", pensando che basti la
parola. In Oriente, la parola è solo il principio- e il resto, è tutta
un'esperienza nuova, che ha nella pratica del cucinare il primo grande
scoglio da sormontare.
Il
problema primario è dato dagli ingredienti, che sono tutt'altra cosa da
quelli a cui siamo abituati. A cominciare dall'acqua, per finire con il
grande universo delle spezie, passando in mezzo all'enorme categoria
del "non sa di niente" che non è dovuta al fatto che in mezzo ai
grattacieli non ci sia il km zero, perchè si passa un ponte e si va in
Malesia e a poche ore di aereo abbiamo quella grande Patria dell'Organic
Farm che è l'Australia. E' proprio che in Oriente gran parte degli
ingredienti locali, in purezza,sanno di poco: perchè in Oriente è il
piatto-e non il prodotto- che detta il tempo.
in Italia, basta una spremuta di arance per riconciliarti col mondo.
Qui,
le arance te le portano in dono, come segno di prosperità, ma spremerle
o lasciarle lì dà al palato la stessa identica soddisfazione.
Quindi,
come dicevo, il problema è cucinare perchè questo sgnifica
primariamente dare sapore. E quello che è un concetto semplice diventa
infinitamente complicato, nel momento in cui si è deciso di affidare il
compito di dare sapore alle spezie.
Che sono un universo parallelo, non tanto nella tipologia, quanto nelle infinite combinazioni a cui danno vita nei dosaggi.
Le
miscele di spezie mediorientali di cui parlava Gaia nello scorso post
sono l'esempio più profumato di questo concetto che, a casa mia, si
sviluppa in parallelo con la cucina indiana: di qui il ras -el- hanout,
di là il curry, di qua lo za'tar, di là il masala, tante chiavi per
inifiniti mondi, non codificati se non dal palato e dalla punta delle
dita.
E' per questo che scrivere una ricetta su un zuppa speziata è tempo perso.
Lodevolmente perso, mettiamola così.
Ma perso comunque.
Perchè i cucchiaini e le bilance non servono.
Serve
solo sapere che cosa si vuol fare e cercare di realizzarlo, un po' alla
volta, aggiustando il tiro oggi e riaggiustandolo domani, nella
speranza che, prima o poi, qualche filo di questo DNA che non ha bisogno
di dosi e di pesi si attacchi anche al tuo.
Ciononostante, questa zuppa di carote alle sette spezie è una ricetta che "s'addafa", più per la concezione che per la precisa esecuzione. Intendo dire che non vale la pena di rovinarsi la piega, se non trovate i semi di senape nera o le foglie di curry: prendete ispirazione e andate a sentimento: non ve ne pentirete
La ricetta è qui, sullo Starbooks
E noi ci vediamo domani, che sarebbe un po' ora di riprenderlo, 'sto blog..