Viaggiamo Emirates, con scalo a Dubai, quel tanto che basta per rendersi conto di una diversità che non ci piace (dagli eccessi del lusso all'assenza di carta igienica nel bagno delle donne, perché fra i divieti a cui il mio sesso è sottoposto, in questo angolo del mondo, è contemplato pure questo) e arriviamo a Singapore alle 8 del mattino, con 24 ore di veglia che, secondo me, dovrebbero metterci al riparo da qualsiasi jet lag.
"non quando voli da questa parte" assicura il marito che, ultimamente, "da questa parte" ci è di casa. Ma Singapore gli manca ed è anche per questo che accogliamo la ferale notizia della camera che ancora non è pronta con allegria: dei tati modi per ingannare il tempo, l'opzione "giro nei dintorni" resta la mia preferita, a maggior ragione se non ci si è ancora stati e se quelo che vediamo è così...
Siamo a un passo dal "quartiere arabo", così chiamato dal nome della via principale, Arab Street, che però, a dirla tutta, di "principale" ha poco, visto che le scorrono parallele altre stradine, tutte altrettanto variopinte e pittoresche. E incasinate e assolutamente "arabe", in merito ai colori, ai profumi, ai negozi di stoffe (assoltamente da urlo), di lampade e di tappeti. Sono le dieci del mattino ed è troppo presto per godercelo nella sua dimensione più vera: ma a volte, basta poco per innamorarsi...
"barcollo ma non mollo", potrebbe essere il mantra di questa prima mattinata: perché se è vero che non ho le forze (e i calzini) per entrare nella Moschea, non sono ancora nella condizione di gettare la spugna. Mi gira la testa, per il sonno, il caldo, l'umidità e l'essere ancora vestita come nella Genova di 24 ore fa: ma a pochi passi c'è il famoso quartiere indiano, una delle attrattive certificate di Singapore e sarebbe stupido non dare un'occhiatina...
Doverosa premessa: ci si torna. Non fosse altro perché siamo in piena "Festa delle luci" (Deepavall), perché una cena indiana la si fa, perché ora siamo troppo stanchi per goderci qualcosa nel vero senso del termine e buon ultimo perché il tassista, ieri sera, ci ha parlato di un mega super market, Mustafà, che è una specie di Harrod's etnico, molto più economico e più sgangherato, ma allettante tanto quanto. Secondo la mappa, ci si arriva facile, tirado su per Arab Street: secondo la topografia reale, ci tocca una deviazione per lavori in corso che ci porta in un quartiere piuttosto degradato, lontanissimo dalla Singapore che vedremo nel pomeriggio e che è a una manciata di km a dir tanto: come dire, che i contrasti esistono anche qui. Meno violenti, meno sfacciati, più "delicati", insomma. Ma ci sono.
Stando alle guide politicamente scorette che leggo io, la Little India di Singapore consente un assaggio di India vera, depurata dai miasmi che, ahinoi, dell'India vera costituiscono la parte più reale. Da un giro veloce, deduco che potrei essere d'accordo: rispetto al quartiere arabo, c'è un gran casino e l'impressione è che questo sia un quartiere infinitamente più vissuto: signore in sari con le borse della spesa, uomini che si industriano per caricare e scaricare furgoni, gente che va e che viene e che si affolla, praticamente dovunque: il clou è al tempio, aperto per la celebrazione del culto, ragion per cui non lo si visita e si rimanda ai prossimi giorni: per ora, ce lo giriamo random, finchè si resiste...
Mio marito crolla alle 12,37 ora locale. Colpa del jet lag, ma anche della giacca, della camicia, di un'umidità che si tocca e del mercatino indiano. Come dire, c'è un limite a tutto. E così, proprio mentre stavo iniziando a divertirmi, si trova un taxi e si torna in hotel.
Nota uno: i taxi sono tanti, bellissimi ed economici. Usateli come e quado volete, anche se alla sera il prezzo aumenta sensibilmente. I tassisti sono gentili, affabili e simpatici: quello del mezzogiorno, ci fa una mini lezione di cucina di Singapore, suggerendoci tutte le bettole più immonde (ad una delle quali mio marito aveva già riservato il suo ultimo sguardo) e tutti i tipi di cucina che possiamo trovare: insiste per il Laksa e si raccomanda di non infilarci nelle catene. Qualsiasi posto va bene, per una "great food experience"- basta che non siano ristoranti in serie.
Rispetto all'ora in cui avremmo dovuto avere la camera, siamo in anticipo. Ma la parola d'ordine, qui, è efficienza, sempre coniugata con "gentilezza" e nel giro di tre minuti siamo sistemati. Devo solo abituarmi ead essere servita, sempre, in tutto e per tutto- e sempre col sorriso. Ma qualcosa mi dice che imparerò presto...
Il "tu dormi pure, io intanto leggo" si trasforma in una due ore di sonno senza sogni, dal quale mi sveglio pronta per aggredire tutti i segreti della città. Non prima dell'atroce scoperta che in questo hotel arci fornito, pure di robe superflue come l'asse da stiro (e sottolineo il punto), manca il phon.
"chiama la reception e fattelo portare" è il commento insensibile del marito, che la natura ha dotato di una chioma "normale", non della cofana da palombaro della sottoscritta. Invento un sistema complicatissimo di mollette e mollettoni, mentre penso con rimpianto alla piastra da viaggio che giace incorrotta sul ripiano del lavabo di camera mia e poi si parte.
Prima tappa: la bettola fetida di cui sopra.
Che, vivaddio, è chiusa.
E io amo Singapore, ogni secondo di più.
Un altro giro nel quartiere arabo ce lo fa piacere ulteriormente: ora è affollato, vivo, pieno di negozietti deliziosi, di quell'etnico-chic che mi mette d'accordo con mia figlia (io prendo lo chic, lei l'etnico) e che mi fa fermare ad ogni vetrina, memorizzando numeri, punti di riferimento e liste di regali: quel tanto che basta perché il marito si stufi e decida che è ora di fare sul serio. Altro taxi e in cinque minuti eccoci qui...
Segnatevi le date.
Nel 2005, il governo di Singapore decide di realizzare un parco sulla baia, dell'estensione di 101 ettari (letto bene: centouno, e gli ettari son ettari, anche da questa parte del mondo)
Nel 2006, parte il bando per l'appalto, al quale partecipano 70 progetti e che viene vinto da due studi britannici, uno per il Giardino della zona sud, uno per la zona est, rimandando successivamente quello della zona centrale.
Nel 2011 apre Bay South, nel 2012 Bay East e giurerei di essere stata pure in Bay Central.
In tutti i casi, 101 ettati di parco, realizzati in sette anni, massimo nove.
E noi stam qui a contare i morti, per la copertura di un torrente...
L'attrazione principale sono i giardini , da non confondere con l'Orto Botanico (quello, ce lo teniamo per giovedì, l'unico giorno in cui il marito avrà il pomeriggio libero). Sono suddivisi in due padiglioni, l'uno tropicale, l'altro "normale" e vale la pena di visitarli entrambi, sia per il contenuto che per il contenitore...
Dentro, è come stare all'Euroflora: solo che da noi capita una volta ogni cinque anni, qui tutti i giorni....
Alcune piante hanno nomi divertenti: questo, per esempio, è "l'albero fantasma"
queste, le lingue di suocera...
e questo, "il Vecchio della Montagna"...
(superfluo dire che è il più fotografato di tutti).
A proposito di foto, ecco l'ultima mania dell'Estremo Oriente:
Il "porta selfie": una specie di canna uncinata, su cui potete sistemare il vostro cellulare e farvi tutti i selfie che desiderate, senza dover invocare ogni volta la dea Kalì o Elastigirl. Senza contare la comodità della sbarra blocca traffico, che ti permette un'inquadratura perfetta, senza i soliti passanti distratti...
Il secondo edificio è quello della Foresta Tropicale, sottotitolata "addio piega"
Ovviamente, il marito che nell'altro giardino doveva essere pregato supplichevolmente per ogni scatto, qui ci ha dato dentro a profusione, sogghignando ogni volta che mi guardava: per cui, godetevi le ultime immagni, mentre io ritento con le mollette...
cena, figuracce e massaggi nella prossima puntata ;-)