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lunedì 7 gennaio 2013

Tarquin Hall- Vish Puri

Ovvero: come cascarci di nuovo.
Precisiamo. Il povero Vish Puri c'entra solo fino a un certo punto, perché la sua parte, a suo modo, la fa: meglio nel finale che per il resto del libro, ma alla fine si resta comunque desiderosi di sapere chi sarà il colpevole e questo, per un libro giallo, è già un bel merito.
Il problema, ancora una volta, sono i recensori- e, nel caso in questione, TuttoLibri di LaStampa che sta alla sottoscritta come la stella polare ai naviganti. Per cui, quando ho letto che l'otto settembre sarebbe uscito un romanzo con un nuovo personaggio, un investigatore indiano amante della buona cucina e del metodo d'indagine classico, come si poteva intuire sin dal titolo, da buona gialllista orfana di cotanti Padri ho iniziato a fare il conto alla rovescia dei giorni che mi separavano dalla fatidica data. E quando questa è arrivata, puntuale come un orologio, me ne sono completamente scordata.
L'ho recuperato qualche settimana fa, nella consueta pausa pranzo in libreria, ed ho iniziato a leggerlo tutta speranzosa, zittendo le consuete richieste della creatura perché , se è vero che in casa nostra vige l' Ubi Minor, Omnia cessant, qualche volta anche no. E quindi, che mi lasciasse in pace, a godermi 'sto po'po' di capolavoro.
Siccome saprete già com'è finita, passo subito ad elencarvi quelli che per me sono stati i punti deboli del romanzo

1. il primo è la mancanza della tensione narrativa: a costo di essere noiosa, questo è uno degli elementi fondamentali di un giallo, se non addirittura il più importante. A titolo di esempio, tanto per citare nomi illustri, non sempre le trame della zia Agatha o di Rex Stout o di Ellery Queen filano via lisce come l'olio: si tratta naturalmente di eccezioni, ma è indiscutibile che ci siano state. Tuttavia, la magistrale tensione narrativa della scrittura ha supplito alle pecche del plot, sì da far chiudere un occhio su queste ultime. Nella storia di Vish Puri, invece, succede il contrario: la trama tene, la scrittura no. Questo per colpa del continuo intersecarsi di vicende parallele ma estranee alla principale che di fatto "divertono" il lettore, nel senso che lo distraggono di continuo, per giunta interrompendosi non sul più bello, come qualsiasi telenovela insegna, ma in un modo talmente casuale che se proprio non si cade nella noia, quanto meno la si sfiora, e pure più volte

2. accanto alla mancanza di tensione narrativa, mancano anche i tempi comici:l'autore ha l' ambizione di coniugare il plot del giallo classico con la verve comica, in un connubio che, se felice, porta a risultati a dir poco esilaranti- e Donald Westlake ne è l'esempio più alto. Qui, invece, si scade subito nel patetico, con battute infelici che, non essendo sorrette da quell'abile crescendo che prelude alla risata, si ammosciano tristemente in veri e propri flop

3. la vera occasione perduta del libro è però l'ambientazione: il romanzo si svolge nell'India dei nostri giorni, in una società dove gli atavici contrasti sono portati al'estremo dall'adesione alle nuove regole del mercato, ispirate a logiche tanto spregiudicate quanto opposte ad un pensare comune, stratificatosi in una cultura millenaria: un argomento, quindi, di estremo interesse e d uno scenario che avrebbe potuto offrire milioni di spunti, anche di natura sociale. Non c'è dubbio che Tarquin Hall - che prima di questo libro faceva il giornalista esperto in reportage sull'Africa e l'Asia- conosca la realtà indiana e descriva in modo preciso la svolta di questi anni. Tuttavia, resta in superficie, senza penetrare nelle ferite che cambiamenti così repentini e su binari così estranei al sentire comune hanno inferto al popolo indiano. Il suo racconto, cioè, non oltrepassa i limiti di un banale resoconto, quale si riscontra spesso in osservatori esterni, strutturalmente incapaci di sintonizzarsi sulla mentalità, le credenze, le abitudini di vita di una cultura ricchissima e complessa come quella indiana.

4. Infine, la nota più triste è l'ambizione di parodiare ora Poirot ora Nero Wolfe, senza capire che non è un paio di baffi o una incontenibile golosità che possono esaurire l'analogia con tali maestri. Senza contare che anche questi due dettagli stonano con i loro modelli illustri: dei baffi di Vish Puri si parla nelle prime pagine del libro, per poi dimenticarsene completamente, evocando per contrasto la cura maniacale che Poirot ha dei suoi e che costuisce un tratto peculiare del personaggio; e Nero Wolfe è tutto fuorché goloso: la raffinatezza della sua profonda cultura gastronomica che ha fatto dei suoi libri una sorta di trattato della cucina che non sfigura accanto ai testi classici, e soprattutto la straordinaria abilità descrittiva di Stout, grazie alla quale il lettore percepisce profumi inebrianti e sapori squisiti, in un magistrale connubio fra tecniche sopraffine ed equilibrio degli ingredienti, non può essere svilito nel crasso appetito dell'investigatore indiano, che si fionda nelle bettole e divora cibo di strada.

Tuttavia, qualche elemento positivo il libro ce l'ha ed è per questo che ci sono speranze che l'autore possa crescere, sviluppando i suoi pregi: il netto miglioramento nel finale, per esempio, dove si scopre con piacevole stupore che la capacità di risvegliare l'attenzione dell'autore e soprattutto di mantenderla desta c'è, eccome; il plot narrativo che regge benissimo, senza nessuna smagliatura, pur discostandosi dai modelli a cui dichiaratamente si ispira; infine, seppure appena abbozzato, il quadretto dei rapporti interfamiliari con la moglie e con la madre , che costituisce un momento felice della narrazione,insieme al tratteggio psicologico di alcuni personaggi, spesso marginali.
E' a tutto questo insieme di pregi che si deve l'inclusione del romanzo nell'ambita classifica dei libri così e così, insieme ad un invito a leggerlo (meglio se preso in prestito in biblioteca o da qualche amico, destinando i 18,50 euro del prezzo di copertina ad altre letture): se non altro, per non perdere il gusto di discuterne qui.
Buona domenica
Alessandra

domenica 7 febbraio 2010

Sophie Kinsella- La Ragazza fantasma


Premessa n. 1: quando ero al liceo, ero molto, ma molto, ma molto brava in italiano scritto. E lo sono stata fino a quando ho commesso l'ingenuità di dire al professore che magnificava le mie letture, sostendendo che era grazie a Dostojevski e a Manzoni che sapevo scrivere così bene, che io dovevo tutto a Brunella Gasperini. Ovvio che lui non sapesse neppure chi fosse. E altrettanto ovvio che, da lì in poi, la mia fama di futura scrittrice abbia subito un duro colpo, almeno fino a quando mi sono rassegnata ad adattarmi allo stile asciutto e rigoroso che tanto gli piaceva, sacrificando la gioia di scrivere ad un nove in pagella.
Quando era alle medie, mia figlia era molto, ma molto, ma molto brava in italiano scritto. E ora che è al ginnasio, lo è rimasta: e sapete perché? Perchè, visto il ripetersi della situazione di cui sopra con la sua insegnante della scuola dell'obbligo, le ho tassativamente proibito di rivelare alla nuova professoressa che se sa scrivere così bene, buona parte di merito è di Sophie Kinsella.

Premessa n. 2 (dedicata a Silvia M.): la Kinsella originale ha uno stile assolutamente piatto. Riesce lo stesso a far ridere, ma senza mai andare oltre una desolante e disarmante superficie. Se nelle versioni italiane ha invece una prosa spumeggiante e felice, questo è interamente merito del suo traduttore, che riesce a supportare la perfetta padronanza dei tempi comici della scrittrice con un linguaggio variegato e sempre puntuale, rendendo oltremodo decoroso ciò che invece in inglese non è. Chapeau.

Tutto ciò premesso, "la ragazza fantasma" è un altro prodotto "Kinsella Style," ma con qualcosina di più. Stavolta, a mettere in moto l'azione è la ultracentenaria prozia della protagonista che, nel corso del suo funerale, si manifesta sottoforma di un fantasma di vent'anni- che poi è l'età che l'arzilla vecchietta sentiva di avere, nonostante il passare del tempo. La ragione per cui non riposa in pace è lo smarrimento di una collana a lei cara, che da questo momento in poi diventerà il fulcro di tutta la storia, fino allo scontato finale.
Se avete già letto qualcosa di questa scrittrice, non esiterete a riconoscerne i consueti meccanismi su cui si basa la trama: la protagonista giovane e inguaiata, l'amore fortunoso prima e fortunato poi per il solito principe azzurro dei nostri tempi e l'inghippo più o meno grave da risolvere, che fa da ossatura all'intero plot. Il tutto, come sempre, condito da una serie di avventure sempre al limite dell'assurdo, rese godibilissime dalla perfetta gestione dei tempi narrativi e comici, che resta il pregio maggiore di questa scrittrice, almeno da quando si firma Kinsella.
L'elemento di novità è dato proprio dalla "ragazza fantasma" che, nell'edizione italiana, dà il titolo al libro e che, della traduzione italiana, è l'unica nota stonata: l'originale, Twenties Girl, la ragazza degli Anni '20, rende con maggior precisione ed immediatezza la peculiarità della co-protagonista del libro: il fantasma di Sadie, infatti, si esprime, si comporta e si veste alla moda di quegli anni, che furono poi quelli che l'aveva vista al massimo della vivacità e della gioia di vivere e che sono lo scenario che di continuo cerca di sovrapporsi a quello contemporaneo della pronipote Lara. A mano a mano che la storia procede, si sviluppa anche il rapporto fra le due donne, in uno schema assolutamente prevedibile, come si diceva, ma che per la prima volta oltrepassa la superficialità tipica dei personaggi della Kinsella e si arricchisce di una nota più intima e calda.
Insomma, per farla breve: i capolavori non abitano qui, ma la Kinsella non fa nulla, ma proprio nulla per manipolare il pubblico, anzi: proprio in nome di questa onestà, tratta la sua materia con ironia, leggerezza, disinvoltura e, soprattutto, mantiene le promesse. Nessun arrovellarsi sui perchè della vita, nessuno strazio per i destini del mondo, nessuna polemica, nessuna diatriba, nessun complotto: solo due ore di divertimento e di rilassatezza, per giunta confezionate con stile. Per chi legge- e chi vive- a colori
Alessandra


S. Kinsella, La Ragazza Fantasma, Mondadori, 19,50 euro

giovedì 4 giugno 2009

la danza del gabbiano

Se mai mio padre dovesse entrare a forza in una galleria di personaggi letterari, sarebbe una specie di moderno padron 'Ntoni. Un po' perché passa metà del suo tempo libero a pescare, su un gozzo bellissimo che pur senza chiamarsi Provvidenza, è stato spesso silenziosamente benedetto da parenti ed amici per aver riempito le loro pance di quanto di più simile ai sapori del paradiso ci possa essere; un po' perché guarda le cose con il distacco di chi, proprio, non le capisce, e un po' perchè parla per proverbi.

O meglio: ogni tot di anni, mio padre crea un proverbio, un motto, un modo di dire, che gli piace particolarmente e che usa come corollario ad ogni evento che meriti la sua attenzione. Ed è così metodico in questo che i capitoli della storia della mia famiglia potrebbero benissimo intitolarsi con le chiose paterne, un po' come gli Annali romani, con la piccola differenza che, al posto dei consoli, qui avremmo frasi auliche come "dare soldi, vedere cammello", " cessa-lavori" e "son sempre arrivato secondo".

Quest'ultima frase è quella che mi riecheggia nella mente ogni volta che mi soffermo a fare qualche personalissimo bilancio esistenziale, che si conclude puntuale con l'amara constatazione che io, per contro, son sempre arrivata prima. Laddove il prima non è l'aggettivo, ma l'avverbio: vale a dire, cioè, che son sempre stata in netto anticipo su tutto. Il che, ad essere onesti, non è una fortuna, per niente: ho ferite che bruciano ancora, per aver messo in pratica quando i tempi non erano ancora maturi, idee personali che in seguito son diventate mode, tendenze e carri del vincitore, ma che all'epoca mi hanno fruttato reprimenda pubbliche, sopracciglia alzate, sguardi di commiserazione. Nell'elenco ci sta di tutto, dalla tesina di maturità ( bocciata alla stragrande, ai miei tempi si doveva fare la ricerca), al blog di cucina (scrivo le stesse cose, ma in privato, dal 2002), passando per titoli di tesi bocciati ( e poi rubati in tempi più maturi: farsene fottere due su tre, è quasi roba da professionisti), idee professionali riciclate e tutta una serie di varie amenità, fra cui trova posto anche Andrea Camilleri.

Correva l'anno 1995 e io insegnavo in un liceo scientifico cittadino, quando proposi al Collegio Docenti di affiancare ai Promessi Sposi la lettura di un testo a scelta fra Il Birraio di Preston e La Mossa del Cavallo. A distanza di tempo riconosco di avere avuto anch'io la mia parte di responsabilità, per tutto quello che successe dopo: l'anno prima, quando avevo chiesto se si potevano accompagnare i ragazzi al Teatro dell'Opera, iniziando una collaborazione col Carlo Felice, il Preside si era girato di scatto verso la vicaria e, dopo averle chiesto, con aria cospiratoria " Cu è Carlo Felice???" si era rivolto a me in malo modo, dicendomi :" Professore', nun cominciamo, che lo sapete benissimo che 'stranei, a scuola, nun se ne po' portare!!!" Quindi, un minimo di lungimiranza lo avrei dovuto avere. E proprio perché ne ero priva, non avevo previsto quello che successe dopo, con colleghi di lettere con la bava alla bocca, a darmi della sovversiva, armati del solito scudo del "son vent'anni che insegno allo stesso modo, non vedo perché dovrei cambiare", a proteggere vent'anni di questionari con le stesse domande, di lezioni con le stesse parole e di compiti per le vacanze che iniziavano sempre con la consueta "lettura degli ultimi - dieci, quindici, venti- capitoli dei Promessi Sposi"- che è meglio che se li facciano a casa, con calma....

Questa lunga premessa per dire che a me Camilleri piace tempore non suspecto, quando a lui non se lo filava nessuno e la Sellerio era una piccola editrice di nicchia, che pubblicava chicche per amatori e per cui bisognava specificare sempre che era "quella dei libretti blu", perché il nome, da solo, difficilmente arrivava a segno. E per dire anche che noi a Montalbano vogliamo bene, sul serio. Qui è una specie di amico di famiglia, un po' come la signora Fletcher, al punto che a volte ti stupisci del fatto che non esista nella realtà, da tanto fa parte della tua vita, del tuo modo di sentire e di vedere il mondo. Quindi, mi si perdonerà se dico che quest'ultima fatica letteraria, questo strombazzato ritorno del commissario, questa "danza del gabbiano" che avrebbe dovuto riportare ai fasti di un tempo il suo protagonista, è una mezza delusione. Lo è sin dalle prime pagine, con una Livia sempre più stanca, sbiadita e frusta e una prosa che stenta a decollare, impastichata in una prosa faticosa, lontana, lontanissima dalla freschezza di un tempo, con dialoghi spesso inefficaci, che raramente riescono a suscitare qualcosa di più che un semplice sorriso nel lettore. Ne consegue che il plot narrativo, che non è mai stato il pezzo forte delle inchieste del commissario, mostri la corda assai prima del solito, rivelando incongruenze e scioglimenti finali così repentini e opportuni da far storcere la bocca anche ai meno esigenti. E se è corretto riconoscere a Camilleri lo sforzo di tornare sulla retta via, abbandonata nelle sue ultime fatiche, forse schiacciato dagli obblighi di una popolarità troppo grande, è altrettanto vero che ciò avviene a tratti, a sprazzi, a flash, in un insieme che ha perso la meravigliosa fluidità di un tempo, increspatasi in punti di sutura manifesti e, in certi casi, addirittura grossolani.
Ciononostante, non si riesce ad essere più di tanto severi con il duo Camilleri- Montalbano: e questo perché, ancor prima che con la mente, li si legge col cuore, senza porre nessun filtro fra noi e la storia- non la ragione, non le competenze, non l'attenzione all'indizio. Qui ci si consegna subito all'emozione, in un turbinio di sussulti, simili ai passi della macabra danza del gabbiano, che oltrepassa il semplice spunto del titolo del libro per diventare l'emblema della cifra che ne contraddistingue la lettura, in un coinvolgimento costante e totale,che ora ti toglie il fiato, ora ti stringe il cuore, ora ti strappa un sorriso che anche se è l'eco lontana delle risate irrefrenabili dei bei tempi andati, segna comunque un legame forte e tenace, di quelli che resistono agli anni, allo smalto che via via si scrosta, alla brillantezza ogni giorno più opaca, alla freschezza dela gioia di vivere, che lascia spazio ad una maliconia, sottile ma struggente, degli anni che passano- per Camilleri e Montalbano e anche per te.
Andrea Camilleri
La Danza del Gabbiano
Sellerio Editore
13,00 euro